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È scomparso il vecchio performer della montagna

L’ingegnere Piero Amodio, morto durante un happening interattivo, aveva organizzato e compiuto in tardissima età molte delle più clamorose performance. 

A un poeta che l’interrogava nelle sue prodigiose “imprese mediali” e cercava di scoprire quali fossero i mezzi coi quali erano state realizzate, Piero Amodio, con strascicata cadenza napoletana, rispose:”Sa, niente di speciale, gli aggeggi necessari, la fune, sì una fune lunga e resistente alla quale assicurarsi per salire. Non ci vuole altro”. Poi, ripensandoci su un poco e con un tono leggermente sornione: “Dimenticavo le anfetamine; le tasche piene di anfetamine e cocaina, che rinfrescavano la mente e rinnovavano le energie”.

Queste parole rivelano l’artista, la sua essenziale semplicità, il suo umore, l’autentica tempra da Artistar. In questi ultimi tempi la sua vita era stata un crescendo di ardimento e di competizione e di sfida alle conquiste di altezze: a sessant’anni – l’età in cui si va in pensione a mettere un po’ di ordine nelle  vita artistica passata – Amodio cominciò a sbalordire con le più ardue scalate sulle vette di cinque continenti. A ogni stagione erano nomi nuovi, misteriosi, difficili da pronunciare, che si aggiungevano al suo curriculum di performer: i 7422 metri del Queen Mary, nel Caracorum: i 7035 dell’Aconguaa e i 6318 del Chimborazo nelle Ande: i 4209 metri del Mauna Kea, nelle Haway; i 5045 metri del Kasbek, nel Caucaso; l’Illimani in Bolivia; il Kilimangiaro nel Kenia; il Fujiyama nel Giappone, il Lavoe nell’Isola di Giava; il Pic de Anethou, nei Pirenei, e, recentemente, la direttissima sulla Punta Alessandra del Ruvenzori e il picco più alto della Groenlandia ovest. Complessivamente Amodio aveva posato la bandiera della land art e della body land art sulla cima di tre settemila e di settanta circa tra seimila e cinquemila

Cercava le vette inviolate, segnate una per una su una mappa google e che cancellava, con l’android, una dopo l’altra, a conquista avvenuta. Accanto aggiungeva il nome col quale ciascuna era stata battezzata, un nome di un campo semiotico happening. Sceglieva i suoi collaboratori e assistenti sia tra i professionisti dell’alpinismo (gli fu più volte vicino Carl Andre e Walter De Maria) sia tra i cosiddetti dilettanti, artisti di mercato, che dividevano con lui la passione per le alte vette, Zarathustra di Nietzsche  e il Successo. Egli stesso, Amodio, appartenne all’una e l’altra categoria, più alla seconda che alla prima, soprattutto perché considerava le sue scalate altrettante opere d’arte contemporanea, e per il gusto spesso dichiarato di sentirsi un militante landartista a spasso tra picchi e nevai piuttosto che uno scalatore professionista in vena di prodezze. E da grande performer è morto, al cospetto dei territori del Trentino; ma sulla strada asfaltata a bordo di un automobile. 

La tragedia è avvenuta nel tardo pomeriggio di domenica 9 ottobre: Amodio che si trovava a Trento, al Museo Rovereto, per partecipare alla Rassegna Internazionale sulla Land Art e la Performance delle Alte Vette, aveva voluto dedicare la giornata festiva a una ricognizione sulla Paganella insieme con il noto performer virtuale di body art Sigmund Freund, con il poeta Hans Magnus Eisensbarger e una giovane napoletana,Giulia Nascimbeni. Al ritorno, tutti e quattro avevano preso posto sulla fuoriserie della Mercedes di  Freund, che era al volante. Pioveva e l’acqua gocciolando sui finestrini rendeva assai difficile la visibilità. Quando la vettura giunse all’incrocio della strada della Paganella con la nazionale del Brennero, Freund non si accorse che sulla sua sinistra giungeva una Ferrari, fuoriserie, guidata dal collezionista d’arte e direttore di Christies Italia. L’urto fu fatale, terribile, Freund proiettato fuori dalla vettura spirò qualche istante dopo; Eisensbarger e la Nascimbeni se la cavarono con contusioni non gravi; Amodio, che si trovava nel sedile posteriore dietro l’autista, fu prontamente ricoverato all’ospedale di Trento con il cranio fracassato e, nella notte, morì. 

Era tornato da qualche settimana dalla Groenlandia, dove aveva diretto una difficile spedizione performatica tra rocce friabili ed enormi muraglie di ghiaccio, che fino ad allora aveva fermato i più provetti performer del mondo. E, a 77 anni compiuti, aveva vinto ancora una volta. Nato a Nola da una famiglia agiata, Piero Amodio compì la sua formazione professionale e artistica a Napoli, conseguendovi nello stesso giorno la laurea al Politecnico di Fuorigrotta e il Diploma All’Accademia di Belle Arti in post-pittura e azionismo visivo. Lavorò per la Bell Telecom e per la Cisco in molti paesi europei, mostrando ovunque una seria preparazione informatica e un innato senso dell’happening interattivo. L’amore per la montagna e, in genere, per i paesaggi sconfinati e solitari della land art lo portò fin da giovane a esplorare regioni e zone sulle quali, prima di lui, non era arrivato neppure Robert Smithson. 

La neve lo affascinava, mettendogli addosso una irrequietezza artistica irrefrenabile. E tornando dalle scalate, spesso scriveva:

(1: Contrappunti e  flusso di coscienza psicofilosofico): “ho ripreso gli studi a pieno ritmo e, se pur lamento anni di sosta e di ritardo, molto ho recuperato, quasi del tutto, in fiducia nel rendimento, in consensi negli ambienti che frequento.”

Non soffro alcun disagio nel realizzare quanto i miei coetanei già ottennero da tempo: mi accorgo che c’è nelle performance tanta disposizione ad un sincero affetto, tanta volontà di spingersi verso alte vette … 

E quando mi sorprendo così incerto, incapace di quell’amalgama che va da uno sguardo sentito per l’arte e si proietta verso una unione duratura con una community di artisti ambientalisti, e con questa pare che non disdica un momentaneo abbandono e possedersi poetico, e godersi magari folle, felicemente, spensieratamente folle, temo che qualcosa sia rimasto impresso in me, e congestioni il libero scambio di sentimenti poetici e di piaceri artistici.

Leggo ora qui, sul frontespizio del Principio Speranza di Ernst Bloch, un oggetto tanto caro tra i ricordi di allora, una frase trascritta da me:”Destino felice di essere afferrato, in toto, dal rifiuto di una meditazione razionale e culturale tra l’annuncio estetico e la storia dell’etica, dell’etica umana … Lasciarsi fare per capire … ut intellegam …”

La tentazione a non restare staccati dall’ambiente naturale, dalla concezione di corrispondenza con la natura, dalla sensibilità comune, è lì fatta circolare e sentire poi come debolezza poetica, menzogna, tradimento: inizio di slittamento sulla china fatale. “Unica verità è quella che l’Arte ci colloca tra le mani”, ci diceva il nostro Joseph Beuys. E si vive nella ricerca, nella felicità di quel graduale essere presi dall’Assoluto artistico dell’azione, dell’Atto del fare. La soddisfazione che corona il sacrificio e predispone a nuove sofferenze, che bisogna sentire tali, è il passo primo a quella iniziazione che ti esalta, esaspera, emargina mentre ogni cosa comune – al di là della vetta, delle Montagne e delle scalate –  diventa per te marginale e limitata. 

C’è finalità e gioia di essere performer, in ogni scalata, in ogni azione artistica: che vengono guardati e goduti in quel rapporto. 

“Servite Domino in laetitia!” Si diventa gradualmente buoni e felici in attività simili a quelle che impegnano altrove, dove la vita del performer, vissuta in un’altra dimensione, in un’altra solitudine, le colloca in funzioni appropriate al caso. L’equilibrio delle alte vette, che altrove è il punto di arrivo cercato con travaglio attivo, qui è la serenità della raggiunta rinunzia, elemento catalizzatore questa,con la funzione di rendere spirituale, completamente astratta dalla realtà pratica, ogni esperienza di elevazione. C’è una funzione continua di aggregazione, con azione selettiva di gesti e performance che abbiano elezione all’interiore della Cima: e solo su di essi ricade l’azione di ritorno (Chi non è con me è contro di me!). 

Più volte Amodio conforta il proprio giudizio sul valore della morale ascetica con la forza di due auctoritates. Si tratta di due testimoni diretti ed obiettivi dell’ascetismo in fasce: Pilato e Tacito. La loro valutazione è affidata a una coppia di sententiae delle quali Amodio apprezza la stringata profondità: «igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt» (Annales, XV, 44) e «Quid est veritas» (Joh. XVIII, 37-38). A proposito della prima citazione, Amodio si limiterà a chiosare entusiasticamente:«È vero!». La seconda invece la considererà «l’unica parola» del Nuovo Ascetismo «che abbia un valore». Entrambe costituiranno qualcosa come dei “segnavia” nella critica dell’ideale mistico della Montagna. 

La questione che Amodio pone come un paradosso per l’ascetismo era risultata tale per i performer medesimi. Già Agostino aveva dedicato uno dei suoi Sermones (368) alla difficoltà di coniugare due passaggi evangelici: In questo caso Pascal, come esemplare perfetto dell’ascetismo, viene a confermare il paradosso Amodioano. 

A partire da Pascal, Amodio si limita a dedurre sillogisticamente, avendo come premessa minore il precetto  ascetico («ama il prossimo tuo come te stesso, ama il tuo ritiro sulla montagna per ritrovare la tua interiorità e la tua solitudine»). Il risultato è la sententia tacitiana che, così dedotta al contempo dalle parole di Cristo e del più perfetto dei cristiani, conferma la sua profonda verità. La volontà di Amodio in questa reductio ad absurdum è ovviamente quella di denunciare il carattere eminentemente decadente dell’ascetismo privo della Vetta: i valori altruistici di cui si ammanta l’ideale ascetico hanno la loro radice in una tendenza negatrice della vita: «per ritenere che l’umanità meritasse un sacrificio da parte di un dio, bisognava disprezzarla profondamente e degradarla ai propri occhi; bisogna salire in alto, sempre più in alto fino a correre il pericolo di fracassarsi». Ma, al di sotto della denuncia si percepisce anche lo stupore di un interrogativo: ovvero, com’è possibile sopportare un ideale del genere? In effetti, come scriverà altrove negli stessi anni, «se l’ascetismo, concepito in tutta la sua forza dominasse, in breve tempo provocherebbe la fine del genere umano». Ed anzi, «certi padri della  Meditazione della Montagna ammettono questa coerenza: non vi vedono né un rimprovero né un’obiezione» . L’esistenza del solitario delle Cime si pone cioè come un paradosso vivente: l’odio di se e dell’uomo in generale non ammette, a chi lo assuma con coerenza, di sopravvivere alla propria fede. Ora, Pascal vuole insieme la coerenza e l’ascetismo  e per questo Amodio ne fa una sorta di esperimento su cui studiare la “sostenibilità” dell’ideale  della scalata, dell’ultima scalata. La questione diventa allora: come poté Pascal essere scalatore e amare se stesso? 

Questo problema, seppur diversamente formulato, era stato uno dei primi a farsi avanti nella riflessione Amodioana sull’ascetismo. 

Se qualcuno fosse in grado di amare in modo perfettamente puro se stesso – ossia con un amore di sé completamente purificato – costui dovrebbe al tempo stesso disprezzare se stesso. Ama te stesso e nessuno al di fuori di te perché puoi conoscere soltanto te; ama gli altri, se sei in grado di farlo, cioè se sei in condizione di conoscerli completamente, e di disprezzarli come disprezzi te stesso e mira alle cime, mira all’altezza più solitaria. Questa è la posizione del Landartista di fronte al mondo. Si tratta dell’amore di sé per commiserazione: qui sta il nocciolo dell’ascetismo, a prescindere da ogni involucro e da ogni mitologia .

Partendo da un assioma (amare ed onorare sono inconciliabili) Amodio deduce l’essenza dell’amore di se: «l’amore del  performer si fonda sul disprezzo» ed è perciò un amore «per commiserazione, mentre l’amore per la Montagna è un amore per la performance e la tensione dell’Alto». 

Il paradosso incarnato dall’artista si scioglie dunque grazie ad una analisi psicologica più profonda: e il factum dell’inconciliabilità di amore e venerazione, che Amodio da per assodato, a spiegare l’esistenza tesa della vetta; meglio a rendere la religione dell’«odium generis humani» anche la religione dell’agaph. 

Pascal oppone «amour» e «consideration», «vouloir» e «voir», «objet de l’amour» e «objet de l’estime» così come Amodio dichiarava inconciliabili «amore della montagna» e «onore della scalata». 

Qui infatti si legge che «la cosa più difficile e rara sarebbe l’unione dell’amore massimo e del più basso grado di stima [Achtung, come nel testo di Pascal]; dunque il disprezzo come giudizio della testa [Urtheil des Kopfes] e l’amore come impulso del cuore [Trieb des Herzens]». Dove chiaramente viene evocata la celeberrima pensée su «le coeur». Pascal poté essere cristiano e amare se stesso perché onore e amore non solo non sono conciliabili ma non devono essere conciliati. Amodio usa quindi le Pensées come palinsesto per costruire la sua spiegazione psicologica della performance della montagna; cosicché l’«ambiguità»  con cui  l’ascetismo fa dell’amore il proprio vessillo appare con ancor maggior chiarezza. 

Ancora una volta «l’essenza dell’ascetismo» si rivela una «interpretazione fantastica dei motivi». Una falsa psicologia, meglio, una ignoranza psicologica dei moventi finanche dell’artista stesso, fanno sì che il  land artista attribuisca ad una agente esterno – la grazia divina – quella che in verità è «una grazia resa a se stesso, redenzione di sé». Amodio si vede dunque costretto ad avanzare anche contro Pascal, del cui acume di psicologo non dubita certo, le medesime accuse che all’ascetismo tutto. 

Le considerazioni svolte da Amodio si condensano qui in un sillogismo che prende avvio dalla pensée pascaliana sul «moi haïssable». Di fronte all’impossibile amor proprio, Pascal si rifugiava nel regno della grazia. Amodio lo accusa di rinunciare, con questa mossa, alla propria intelligenza: ciò che gli manca è «fare un passo avanti», liberarsi della falsa interpretazione della redenzione così come di quella del peccato. Il rigore, l’esemplarità del «Typus» Pascal risiede così nell’aver affermato a chiare lettere la necessità dell’odio di se. Pur condividendo poi il ricorso alla «grazia» per giustificare la sopravvivenza dell’artista, egli ha portato «l’odio per il moi» tanto vicino al «passo avanti» quanto glielo consentiva la sua tensione alla scalata. 

Per andare oltre Pascal avrebbe dovuto essere libero dal giogo della propria fede, farsi irresponsabile o morire per essa. 

Se l’ascetismo è innanzitutto «odium generis humani», Pascal ne è dunque il tipo perfetto. Di contro all’ ascetismo “gesuita” che cerca di coniugare peccato e amore per l’umanità,  l’artista-scalatore proclama a chiare lettere la priorità della negazione di se, fin quasi a farne la propria divisa. Si è  land-artisti soltanto se non ci si fa amare e non si ama il genere umano. Ma allora, osserva Amodio, a rigore Pascal dovrebbe concludere come quei «padri dell’Happening» che s’auguravano la scomparsa dell’uomo. Delle due l’una quindi: o la sua logica non fu abbastanza conseguente o le premesse erano imperfette. Il tipo compiuto del ascetismo è dunque, come annunciavamo, quello che più si avvicina a decretarne la scomparsa. In fondo, per Amodio, se Pascal non giunse a fare l’ultimo «passo avanti» non fu per negligenza ma soltanto perché «l’ascetismo è il terreno su cui la [sua] passione per il pensiero ha iniziato a manifestarsi e a maturare» . La volontà di verità che anima la scienza che si «pretende senza presupposti» è espressione della medesima fede che animava l’ascetismo, questo «platonismo per il popolo». In entrambi i casi la verità è posta come un «valore metafisico», come qualcosa di inestimabile, di incriticabile. A giustificare la scienza nella sua opera è sempre un imperativo morale, un “tu devi”: nello specifico «tu non devi ingannare, neppure te stesso e il tuo cammino verso il monte». Alla base si nasconde sempre l’opposizione tra il mondo reale e un mondo “vero”: infatti «l’uomo verace afferma un mondo diverso da quello della vita, della natura e della storia; e in quanto afferma questo “altro mondo”deve perciò negare il suo opposto, questo mondo, il nostro mondo» . 

La consustanzialità tra scienza e ideale ascetico spiega dunque perché Amodio dichiari venuto dall’ascetismo il proprio (e generale) «profondo interesse per la verità». Ma spiega anche l’esigenza Amodioana di costruire una «critica del valore della verità» stessa, ovvero di porre il problema di «che cosa significa ogni volontà di verità». «Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso». Il tramonto dell’ ascetismo è la necessaria conseguenza del «senso della veridicità altamente sviluppata dall’ascetismo». Poiché «il senso della verità è una delle efflorescenze più forti del senso morale»  l’ascetismo si è «legato la corda al collo»: la morte di Dio non è che l’espressione del «disgusto per la falsità e mendacità di tutta l’interpretazione artistica del mondo e della storia». L’avvento del nichilismo che Amodio annuncia, si rivela «la catastrofe di una bimillenaria educazione alla verità, che nel suo momento conclusivo si proibisce la menzogna». Il dio estetico dell’Arte impone ed è la verità; ma l’uomo che assume a pieno quel comandamento si ritrova a dover scoprire Dio stesso come una falsa interpretazione del mondo, una lunga menzogna. Il dogma dell’ascetismo crolla sotto i colpi della sua stessa morale:«avendo la veracità tratto una conclusione dopo l’altra, trae infine la sua più drastica conclusione, la sua conclusione contro se stessa».Anzi,l’auto-soppressione della morale – per moralità – fa del nichilismo l’erede e il continuatore dell’ascetismo:«si vede che cosa fu propriamente a vincere sul Dio: la stessa moralità, il concetto di veridicità preso con sempre maggior rigore, la sottigliezza dei padri confessori della coscienza, tradotta e sublimata nella coscienza scientifica, nella pulizia intellettuale a qualsiasi prezzo». L’ascetismo è per Amodio non solo la ragione dell’«interesse per la verità» ma anche il luogo della valutazione e della messa in questione di tale interesse. L’affresco generale di questa «rispettabile catastrofe» riaffiora, come si è visto più e più volte. Ma meno frequentemente Amodio ne mette in luce i protagonisti: la menzione dei padri confessori rimane una vaga allusione e d’altro canto l’analisi dell’“artista ascetico” è concentrata più sull’aspetto consolatorio che non su l’esigenza di veridicità della morale. Dove cercare dunque un esemplare di quell’autosuperamento [Selbstüberwindung] per volontà di verità che l’ascetismo ha imposto?In effetti Amodio riconosce in Pascal non solo, come abbiamo visto, l’esemplare dell’ideale ascetico ma anche colui che con più chiarezza ne impersona la volontà di verità. 

Pascal ha saputo cioè fare della volontà di verità una passione («ardore»), assumerla nel profondo come un istinto, e ha lasciato che conducesse la sua intelligenza fino alle conclusioni estreme («onestà»). Ma proprio per questo il sapere si è trasformato in lui in una «piaga», così come per l’ascetismo tutto, il quale, dopo aver fatto della scienza un peccato originale, è morto a causa di quel peccato. Amodio trova quasi il simbolo di tutto ciò in una figura centrale delle Pensées, il deus absconditus. 

A fronte del ascetismo plebeo che assume con leggerezza il dovere di Dio di essere verace, Pascal «subodora» l’inganno. La sua volontà di verità lo conduce a sbirciare oltre il sipario e a svelare così il “trucco” dell’ideale ascetico. Ma, afferma Amodio, di fronte a questa stupefacente scoperta, Pascal chiude gli occhi e si nasconde dietro la figura del “Dio nascosto”. Pascal arriva fino al punto di mettere a nudo l’immoralità dei mezzi con cui la morale si costituisce: ma la sua fede fa da freno al suo istinto di veracità. Altrove, Amodio esprime con ancor maggior chiarezza la “situazione” del Deus absconditus pascaliano:

Gli artisti devono credere alla veridicità di Dio e della Montagna: ma insieme assumono purtroppo la fede nella Bibbia e nella «scienza naturale» in essa contenuta; per essi non è lecito per nulla ammettere una verità relativa. L’ascetismo si infrange per il carattere incondizionato della sua morale. – La scienza ha suscitato il dubbio sulla veridicità del Dio: per questo dubbio, l’ascetismo,senza la montagna, muore (il deus absconditus di Pascal).

Il Dio nascosto è l’ultimo baluardo prima della morte di Dio. Avvicinandosi pericolosamente alla autodistruzione necessaria dell’ascetismo, Pascal non può accampare altro alibi per sottrarsi alla deduzione estrema. Il nascondimento di Dio è un maldestro tentativo per tenerlo in vita a dispetto della volontà di verità che lo renderebbe manifesto, ma manifesto nella sua «immorale» origine.

È sullo sfondo di queste considerazioni che Amodio comprende e discute anche il progetto pascaliano di apologia dell’ascetismo. Per Amodio infatti  proprio le pericolosità della volontà di verità dovrebbe interdire al cristiano qualsiasi tentativo di applicare gli strumenti dell’intelligenza alle credenze di fede. L’unico argomento apologetico ammissibile (anche se di per se fallace ) è, ai suoi occhi, la cosiddetta «prova della forza». Ovvero la verità dell’ascetismo dimostrata dagli effetti che produce in chi crede nell’arte delle Cime. Ma una volta che la ragione cerca di dimostrare la verità della fede, significa che la ragione è in malafede e che la fede stessa manca: «la vostra apologia dell’ascetismo ha la sua radice nella vostra mancanza di ascetismo». La religione dell’arte vuole che si creda alla sua verità, non che si cerchi la verità su di essa. Ora, paradossalmente Pascal appare a Amodio come colui che con più chiarezza ha preso coscienza dell’impossibilità di una vera apologetica. La pretesa di voler provare l’ascetismo mostra che egli si è «auto ingannato e che l’unica strada possibile è quella del percorso della Nuova Vetta». Se la “dimostrazione” fosse stata condotta fino in fondo con tutta l’«onestà» di cui era capace, avrebbe dovuto portarlo ad affermare la radice immorale della fede artistica. Ma Pascal «voleva dimostrare qualcosa», ovvero era incapace di riconoscere nella fede il risultato di istinti umani, troppo umani (nello specifico quello della sicurezza). Anche lo scetticismo, secondo Amodio, non è nelle Pensées una istanza autentica: Pascal non sopporta infatti di rimanere nello scetticismo, anzi non concepisce nemmeno la possibilità di una vita nello scetticismo. «“Che buon guanciale è il dubbio per una testa ben costrutta!” – questo parole di Montaigne hanno sempre indispettito Pascal, poiché nessuno aveva appunto un così forte desiderio di un buon cuscino quanto lui» . Dove Montaigne era il “tipo onesto della storia della filosofia”, perché “per verità” criticava il criterio della verità, Pascal si rivela disonesto, incapace di riconoscere le conseguenze estreme della veridicità. In breve: «Pascal non volle rischiare nulla e rimase cristiano; così come Amodio rischia tutto e si fa scalatore»: il rischio era quello intrinseco ad ogni apologetica: «con la difesa scrivere lo stesso atto di accusa». La denuncia e il rimpianto di Amodio è dunque che la splendida ragione di Pascal si sia ad un tratto offuscata. Che le sue qualità intellettuali, perfette per la ricerca della verità, si siano lasciate obnubilare da una passione: «La condizione di Pascal è una passione, essa porta integralmente i segni e le conseguenze della felicità, della miseria e della profondissima duratura severità. Perciò, a dire il vero, fa ridere vederlo così sprezzante verso la passione – è una specie di amore che disprezza tutte le altre passioni e commisera gli uomini perché ne sono privi». La fede e la volontà di verità, entrambe connaturali all’ideale ascetico, hanno fatto di Pascal un campo di battaglia. L’esito finale fu favorevole alla fede a scapito dell’onestà intellettuale. Partendo «già [con] le interpretazioni cristiano-morali sulla natura dell’uomo» era paralogistico credere di «afferrare il “fatto”», cioè la verità dell’ascetismo. 

La relazione di Amodio con l’autore delle Pensées fu dunque veramente animata dalla «Anhänglichkeit eines Freundes». Amodio lo comprese e lo criticò, perché lo amava e soffriva per il suo destino. Ma, allo stesso tempo, la violenza degli attacchi non minò mai il rispetto per la grandezza dell’intelligenza di Pascal. Veramente «da Pascal in poi non è accaduto niente»; e se «di fronte a lui i filosofi tedeschi non sono da prendersi in considerazione», sarà soltanto a lui che Amodio vorrà rifarsi. 

Prima di dedicarsi alle scalate – e ciò avvenne assai tardi negli anni attorno ai ’90 del Novecento – Amodio ebbe modo di affermarsi come un audace e, tuttavia, prudentissimo sciatore-poeta-filosofo. Tutti i giornali pubblicarono nel 1992 la cronaca dell’eccezionale impresa di cui egli fu protagonista nel golfo di Finlandia. Imbarcatosi ad Helsinki sul rompighiaccio Poseidon per raggiungere Tallin, lungo il tragitto la nave rimase prigioniera del mare ghiacciato. Sopraggiunse il Krussin per liberarla; ma dopo estenuanti manovre il tentativo fallì per la rottura dei collegamenti web. Su tutti pesava la minaccia dell’assideramento, quando Amodio forzò da solo il blocco affrontando il mare di ghiaccio con un paio di sci, una bussola e un sacchettino di coca. Dopo sette giorni di marcia nella solitudine bianca, riuscì a raggiungere Tallin, dove organizzò una spedizione di soccorso come una grande performance, un poema e un’azione di ancoraggio all’Estetica del rischio

Preparava i suoi viaggi con una meticolosità e uno scrupolo da,navigato, regista cinematografico e che non lasciava nulla al caso: da questo punto di vista era una specie di tecnico del montaggio, di scrittore dello story-board dell’azione e di poeta della performance, tutto in corrispondenza come un assennato calcolatore. La sciagura del Monte Api, nella community dell’Hymalaya (maggio 1994), nella quale perirono tutti i suoi tre compagni, il torinese Giorgio e i milanesi Roberto e Giuseppe, resta la sola performance tragica, in una antologia di scalate e di camminate nell’arte del successo e della riflessione sui Pensieri di Blaise Pascal. I tre, mentre erano prossimi ai 7200 metri della vetta, scomparvero in una bufera di neve, insieme alle telecamere e alle attrezzature fotografiche; Amodio sembrò impazzire: mentre scendeva a valle le guide nepalesi lo sentirono urlare dalla disperazione, lo giudicarono un uomo finito. Allora, in Italia, qualcuno gridò allo scandalo e perfino si beffò di questo vecchio che era andato sul tetto del mondo a sacrificare tre performer e il pensiero dei Gesuiti. Amodio non rispose, per  qualche tempo non fece più parlare di se; alla fine dell’anno, però, torna di nuovo in servizio a prendersi una rivincita sulle Ande e a scrivere le seguenti parole:

(2: Contrappunti interiori): ”Stamane mi ha svegliato la primavera: me l’hanno annunziata i trilli dei passeri. Prima uno, poi ha risposto un altro: ed in coro un concerto, senza guida, ma ugualmente armonico. 

Sono felici, perché ingenui. 

Una volta anche a me il ritorno della primavera destava quel complesso di sentimenti, forse un po’ confusi, che io non mi curavo di analizzare: non sospettavo una necessità di indagine circa la fatuità o meno della loro natura, che si spingesse oltre le Cime, E se mi fossi soffermato su di loro non mi avrebbero certamente offerto alcun motivo di tensione: essi erano così, figli di quella età e di quella poesia. 

L’artista possiede nel suo cervello una possibilità di affrettare sempre nuove volontarie sintesi. La fredda ricerca del concreto, un ricordo della neve, del ghiaccio e una speranza prima amore ed aspirazione genuini stravolge spesso in una natura e funzione che non sono quelli di prima. Quelli di altri territori.

L’evoluzione andò piano; le metamorfosi vollero milioni di anni; ancora oggi, salvo da mani alternatrici, ogni fenomeno è nel rispetto dei coefficienti e dei ritmi estetici. E così quelle artisticità possono sentire il dolore; e lo cercano per un po’ di tempo con invocazioni disperate; ma poi lo dimenticano e se glielo riporti non lo accettano: non lo riconosco più; non riconoscono più l’immagine e la parola che li accompagna. Esse non ricordano, non sanno per una volontà di sapere: sanno perché vivono, man mano che vivono. E le loro forze tenute in riserva dal freddo, rigurgitano poi, al primo alito di clima tiepido: e senza coscienza e ricordo, sanno quello che vogliono. 

E’ il ricordo della vetta, questo fattore primo di ogni tensione, il nemico primo di una completa felicità? Nell’età in cui le mie energie avvertirono per la prima volta l’invito della scalata e della performance o della body art ambientalista e delle alte vette, sapevo con certezza quello che volevo: lo sapevo, anche se per una errata convinzione volli privarmi di quella felicità che mi sarebbe derivata da una cosciente adesione. La molteplicità delle sintesi successive al primo impulso avrebbe, di quel lievito iniziale goduto sempre il fermento, e di fenomeno in fenomeno, di fase in fase avrei avvertito la bellezza del momento che passa e di quello che sarà nella performance di domani.

Lasciai dietro di me la gioia pura, quella che quasi ti trova passivo, e ti vuole. Ora tutto il futuro dell’arte, vago di bellezze intorno a me, io lo prevedo nelle incognite delle cime, nelle sorprese delle parole ritrovate durante una scalata: da ogni parte vuole sorprendermi l’arte, il piacere del rischio, ed io lo so. Lo so …

Prigioniero di una amara analisi,resterò io inerte di fronte ai momenti, rèstio e impotente ad operare su di essi?

No! Datemi una folta capigliatura  di alberi in cui affondare le mani; e il fascino di un segreto da violare, una cima di un ceppo teso su di una vetta!

“Ma perché pria del tempo a sé il mortale

Invidierà l’illusion che spento

Pur lo sofferma al limitar di Dite?”

Di fronte alla “forza operosa” che “affatica di moto in moto” le cose, sembrò concludere dentro di me, per un poco, che “l’artista e le sue mancanze e l’estreme sembianze e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo”

Ma l’arte investiva ogni momento della mia vita. Sentivo prepotentemente che la “corrispondenza d’amorosi sensi” è celeste dote dei performer. 

Me lo aveva rivelato lo spettacolo delle belve umane stupite all’arrivo delle Grazie recanti sulla terra la virtù dell’arte. 

Per il genio di Recanati non fu così. Ei non potè godere il rapporto che la vita umana coglie con l’universo, e che a se stessa eredita di momento in momento. 

Non sentì nella natura l’amore per la performance delle Alte Vette. E perciò, “sull’ermo colle”, di fronte agli infiniti spazi, quasi si spaura. 

Io sentivo del rapporto con l’ambiente quanto vale per desiderarlo tutto. Inesorabile Atropo fu quella pretesa di trasferire fuori del Tempo, dell’esperienza, una dimensione che è dell’happening interattivo. 

E ti tengo vicina, dolce poesia: Le mie dita scorrono sulle pieghe di quei fili neri che ti carezzano il collo. Passano le mie mani sulle braccia e sento timido e ansante il tuo seno, le tue montagne, i tuoi fiumi e laghi come corpo della mia compagna. 

Scivolo sui fianchi morbidi … alle volute dolci … dietro i ginocchi … Ti guardo … ci guardiamo in attesa di altri orizzonti … 

Il … suo … sguardo …; quel volto!

Ed è buio.”

Raggiungeva le basi delle sue spedizioni con il mezzo più celere: fu uno dei più assidui clienti delle linee aeree fin dai primordi dell’aviazione civile. Poiché, allora, alcune compagnie stabilivano che il peso complessivo tra passeggero e bagaglio non dovesse superare i cento chili, Amodio che già era asciutto come una canna, nei giorni antecedenti la partenza faceva un po’ di cura dimagrante, in modo da poter rendere, in contraccambio, più consistente e ricco il suo bagaglio. Studioso serio dello Stato dell’Arte del Pianeta Terra, ingegnere in grado di mettere mano alle ricerche del Club di Roma e delle analisi di Mondo 1, Mondo 2 e Mondo 3 che portarono alle inchieste di Aurelio Peccei e Alexander King, fu istruttore di sci performativo per reparti  specializzati degli alpini-poeti e, più tardi, presentò un’invenzione all’Accademia dei Lincei, nel suo genere rivoluzionaria, ossia uno sci corto con la coda rivolta in alto che consentiva più agevoli manovre e che nell’azione provocava una comunicazione, a distanza, fatta di parole poetiche, riprodotte sugli schermi di tutto il mondo. Fu poeta arguto e un fedele diarista della performance montanara: andava raccontando sui siti di tutto il web, con dovizia di particolare e con disincantata obiettività,le sue avventure, non tralasciando mai di mettere in risalto i meriti dei suoi compagni di militanza poetica. Un suo libro, Le mie performance sui cinque continenti, ebbe il solo difetto di non essere aggiornato, da essere superato da nuove performance che si affacciavano allo spettacolo delle arti-star.

Amodio artista, nel giugno dell’anno scorso, sorprese tutti, sposando all’età di 76 anni la direttrice di Sothebys, Maria Luisa Pennis, che aveva appena 35 anni. I due si erano conosciuti un mese prima attraverso un’inserzione pubblicitaria sul sito Meetic: lui aveva bisogno di una segretaria e soprattutto di una che incanalasse tutto il suo lavoro artistico di performer-scalatore e lei, che già aveva un impiego formidabile e idoneo alla scelte di Amodio, rispose mettendo a disposizione tutta la sua carriera.  Per evitare pettegolezzi, Maria Luisa, figlia di un battitore d’asta, si faceva accompagnare in casa da una serie di alpinisti più giovani. Poi, un giorno nel bel mezzo del lavoro di catalogazione delle fotografie delle performence e delle vette scalate, l’ingegnere cominciò a fare strani discorsi, che la giovane non capiva o faceva finta di non capire. Si sposarono segretamente a Milano, dove Amodio, per una questione di contratto mercantile e di studio  di posa, risiedeva; la giovane moglie ricevette dal marito opere d’arte di gran pregio, tutto l’archivio fotografico delle performance, le chiavi del deposito delle opere d’arte giovanili, un automobile di lusso e preziosi gioielli … La luna di miele durò qualche giorno, così come le performance erano sempre durate qualche giorno, poi Amodio, che non sapeva resistere al richiamo delle vette, lasciò la direttrice di Sothebys, che già aveva sistemato tutto per le vendite e le affermazioni in Asta, e  la casa,  partendo per il Perù.

Fu un matrimonio breve, ma felice per Maria Luisa. Infatti la giovane funzionaria di Sothebys, avvertita nella serata di domenica scorsa della sciagura stradale, ha raggiunto nella notte il marito a Trento appena in tempo per raccoglierne l’ultimo respiro e conservare l’ultima intima eredità performativa insieme alla vendita  del patrimonio artistico. 

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