Tra i tanti eventi proposti quest’anno da Rome Art Week, (RAW), durante la sua settimana di apertura, (22-27 ottobre) ne abbiamo incontrato uno che non possiamo fare a meno di segnalare: la mostra intitolata “Dove l’acqua riposa” ospitata a Roma nello Spazio Arte T 24, messo a disposizione dalla Comunità di Santa Maria in Campitelli in Portico.
Una prima ragione per cui abbiamo sentiamo il bisogno di esaminare più da vicino questa esposizione consiste nel suo essere esplicitamente dedicata a Paolo Aita, letterato e critico d’arte da poco scomparso che, tra le altre cose, era divenuto, negli ultimi tempi, uno dei più attivi e ascoltati collaboratori della nostra rivista. Una seconda ragione ha, invece, a che vedere con il fatto che la mostra in questione ci si presenta come un tentativo, sia pure in punta di piedi, di far emergere dallo stesso sforzo organizzativo del RAW un primo, parziale, momento di sintesi non contraddittorio rispetto alla sua vocazione essenzialmente documentaria e di guida globale alla fruizione.
Come viene chiarito nel breve testo di presentazione messo a disposizione del pubblico, il progetto, (realizzato con la collaborazione di “Pensiero Meridiano”, per il coordinamento di Giulia Domenici e Chiara Ingrati cui va aggiunto il contributo di Fabrizio Pizzuti per l’allestimento) nasce dall’idea di invitare alcuni dei cosiddetti “punti di vista” di Rome Art Week, (operatori del settore, attivi nel mondo dell’arte, che suggeriscono e votano le iniziative della manifestazione) ad indicare un giovane artista emergente per ciascuno, scegliendolo tra coloro che, a loro avviso, meglio possono, con il frutto della loro ricerca, contribuire a formare una raccolta di immagini simile ad una “raccolta di poesie”. Un insieme, cioè, al cui interno “il lirismo dell’opera” possa rappresentare “l’apertura del lavoro che non cerca una risposta” e dunque ci propone “non una soluzione, bensì una questione aperta” dove “Il pensiero chiama una suggestione, si raccoglie attorno ad un sentimento, liquido come lirico, come fluido nel significato.” Il che è poi come dire in sintonia con la personalità e il modo di lavorare di Aita stesso il quale peraltro aveva già utilizzato il titolo in questione per una collettiva da lui organizzata nel 2014 presso la galleria Nuova Pesa di Roma ricavandolo da quello di una raccolta di liriche cinesi del periodo Tang da lui curata.
Valutare fino a che punto la mostra ricavata dalle segnalazioni dei 6 “punti di vista” chiamati in causa sia riuscita a rispettare gli intenti dei suoi organizzatori, naturalmente non è facile, non solo in quanto né gli artisti né i loro segnalatori si sono consultati preventivamente, ma anche per via della discesa in gioco di parametri in buona parte sfumati e tendenti per definizione all’inafferrabilità, tuttavia chi ha visitato la mostra, accolta all’interno di una antica cripta ristrutturata, non avrà certamente trovato difficile accorgersi di come , invece, il semplice parametro generazionale abbia a suo modo, funzionato egregiamente quale elemento unificante, in quanto nessuno degli artisti è apparso più disposto, come in passato, a impelagarsi in pretenziose prese di posizione sullo statuto imprescindibile della propria disciplina né, per converso, ad abbandonarsi ad una deriva immaginale di pura superficie. Più in particolare:
Giulio Bensasson, suggerito da Raffaele Gavarro, con il suo “Temo che mi sfugga qualcosa” del 2017 , si è affidato ad una ordinata raccolta di fiori appiattiti sottovuoto, ancora circondati dall’alone degli umori rilasciati durante l’essiccazione, per intavolare la sua perplessità sulle chances che ancora rimangono alla pittura di dare una direzione ed un senso al rapporto tra immagine e memoria.
Dario Carratta, suggerito da Saverio Verini, con le sue tre tele ad olio, tutte del 2018, ha lavorato in qualche modo sul tema opposto, ovvero la capacità della pittura di circoscrivere e inquadrare con la stessa pregnanza con cui affronta i soggetti sociologicamente più impegnativi anche il susseguirsi di eventi quotidiani da cui è difficile risalire a principi appassionatamene universalistici, senza pagare pegno nei confronti del dolore o della mancanza di significato, o, se si vuole della frammentarietà stessa dell’informazione ..
Lorenzo Modica, suggerito da Roberto Gramiccia, con le sue tele “Unintitled” del 2017, “Gray” del 2018, e “What are you doing after the orgy” del 2018, ha utilizzato il colore ad olio insieme ad altri mezzi più modernamente brucianti, non per riportare in vita una pittura da svuotare ulteriormente , ma per mostrarcela minacciata dall’afasia, dalla difficoltà a mettersi al servizio di chi guarda, ma anche da una interiore incapacità a legarsi al procedere della storia avvilito e sminuito dal suo stesso oscillare tra pubblico e privato, tra epopea e diritto all’incompletezza esistenziale.
Fabio Pulsinelli, suggerito da Paolo Balmas, con il suo kit a parete intitolato “Stella cadente al 100%” e la sua installazione a terra denominata “La parte più bella la lascio a te” ci ha invitai a fare un ulteriore passo avanti verso il mondo della comunicazione mediale (in cui includere sia il design che l’advertising) ma anche un passo indietro verso il mondo delle credenze popolari. Nel Kit troviamo, infatti, sotto vetro tutto l’occorrente per costruirci un stella cadente cui rivolgerci con tutta tranquillità a casa nostra, dall’installazione invece non possiamo che prelevare un presunto frammento di meteorite confidando nel fatto che quando era ancora una in cielo nessuno lo abbia fissato esprimendo un desiderio. Da una parte l’ironia sulla nostra incapacità di percepire i cliché in cui la società dei consumi ci ha ormai proiettato fino a non farci più percepire le più ovvie astuzie del linguaggio, dall’altra la dimostrazione di quali fantastiche e inattese svolte creative il linguaggio stesso ci riservi a patto di saperlo trasgredire con il semplice atto del prenderlo alla lettera.
Davide Serpetti, suggerito da Angelo Bellobono, con il suo dittico ad olio e acrilici intitolato “Dove l’acqua riposa” del 2018 e le altre due tele intitolate rispettivamente “Two Carp One Frog” e “Bull” anch’essi del 2018, si è affidato ad una narrazione pittoricamente corretta ma non priva di riferimenti a generi e ambienti del passato, per invitarci ad uno sguardo metaforico che sappia vedere uomo e natura simili e distanti ad un tempo, separati dalla differenza fra comportamenti istintuali e strategie sociali ma uniti dalla reversibilità dei ruoli e dei rituali inchiodati da un immagine refrattaria all’enfasi ma non disposta a cedere definitivamente le armi alla documentazione e alla classificazione, madrine della scienza dell’anonimato.
Sara Santarelli, suggerita da Giovanni Albanese, con la sua installazione a parete del 2018 intitolata “Batticuore”, sembra volerci dimostrare come la permanenza e la solidità non siano un vero valore, ma piuttosto un reiterato rifugio tramite il quale coltivare l’illusione di aver superato il dissidio insanabile tra privatezza e umanità, tra sentire individuale e universalità della poesia. Le sue garze e i suoi rami custodiscono un’ attimo fugace e privatissimo entro una materia deperibile e una forma irripetibile e tuttavia lambiscono categorie eterne come l’amore e la bellezza non meno efficacemente di quanto facessero le pennellate più che sapienti di chi un tempo dipingeva odalische con qualche vertebra in più o di stravolgeva l’ambiente attorno a sé in forza della sua stessa energia interna.
Guendalina Urbani, suggerita da Micol Di Veroli, con la sua installazione intitolata “Immobile atto di attesa” sembra volersi occupare ancora una volta del rapporto tra oggetti già dati, prelevati dall’esistente, e interpretazione del loro apparire nel contesto dell’arte non però in maniera tautologicamente mirata verso il paradosso che intrappola e uccide il pregiudizio accademico. I suoi strumenti sembrano voler andare oltre le sottigliezze linguistiche delle scelte e dei titoli Duchampiani. Irrompono nei sistemi di attese di chi guarda generando ansie e associazioni di idee palesi e financo crude. Un uovo come quello appeso in mostra potrebbe benissimo far scattare una tagliola come quella sottopostagli e destinata a ben altre prede , ma magari lo shock che ne riceveremmo sarebbe forse maggiore. La vittima non sarebbe un animale innocente ma il modo in cui ci siamo fin qui accomodati nell’arte. La nostra saggezza e la nostra scaltrezza postmoderne insieme.