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Don Matteo Zaci Vuoto (II parte)

“A la porte de la maison qui viendra frapper? / Une porte ouverte on entre. / Une porte fermée un antre. / Le monde bat de l’autre côté de ma porte.
Pierre Albert-Birot, Les amusements naturels
[Alla porta di casa, chi verrà a bussare? / Una porta aperta si entra. / Una porta chiusa un antro. / Il mondo batte dall’altra parte della mia porta]

Alfa: La sinfonia del vuoto: ecco tornare alla mente, dopo chissà quanti anni, queste parole. A dirle con una lieve sfumatura di pathos fu, non so chi né ricordo dove, uno Xanto dall’accento di Zefiro. Formula convenzionale, persino banale? Può darsi. Vicina a qualcosa che non cessa di lavorarmi dentro. Qualcosa che non è solo propensione intellettuale verso un accogliente e armonioso umanesimo moderno, in sintonia nostalgica con gli aperti e concilianti orizzonti di un paesaggio dissociato dal vuoto: la chiave per comprendere l’origine e il destino dell’universo potrebbe essere una comprensione più completa del vuoto, non a caso concetto fondamentale in fisica. Le leggi fisiche ci hanno sempre indotto a credere che nulla possa nascere dal nulla. Perché qualcosa esista, ci deve essere materia o comunque una qualche componente fisica e perché questa sia disponibile, ci dev’essere qualcos’altro che la trasformi. Ma se davvero il Big Bang avesse avuto inizio dal vuoto, come potremmo metterla e come effettivamente la mettiamo? Ci sono vuoti speciali che attraversano la tua memoria e non se ne vanno più: neanche quando scompaiono, o muoiono; e tu non ti disperi, perché sopravvivi al loro pensiero; non ti lasci andare, non impazzisci, non ti neghi al vuoto, perché speri sempre che possano ricomparire da un momento all’altro, in qualche angolo del tuo vivere.

Non ho amato tanto le sue idee quanto il tratto più ingombrante e misterioso del vuoto. Tutta la terra aveva un solo spazio vuoto e le stesse vacuità lessicali. Emigrando dall’oriente gli artisti capitarono in una pianura nel paesello del vuoto e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “venite, facciamo mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: ”Venite, costruiamoci una città e una torre vuota, la cui cima tocchi il cielo e segniamo una traccia di riconoscimento, per non disperdere l’immensità del buco nero su tutto l’universo”. Ma il Big Brother scese a vedere la città e la dilatazione dello spazio che gli uomini stavano costruendo. Il Big disse: ”Ecco essi sono un solo vuoto e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio del loro plateaux e quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo, dunque, e confondiamo la loro vacuità, perché non comprendano più l’uno il vuoto dell’altro”. Il Big li disperse di là, su tutti i vuoti possibili ed essi cessarono di costruire il regno del vuoto elitario. Per questo la si chiamò Vacuolandia, perché il Big confuse la lingua di tutta la terra con il perimetro di tutto il vuoto e di là il Big disperse i vuoti su tutto il planisfero. 

Un’inquadratura del paesello: Il pellegrino è sulla via del vuoto. Ha un mozzicone di sigaretta in bocca e ride come un matto. Un vecchio cane sciancato – un pastore bianco di grossa taglia – lo segue. Il pellegrino gli butta ogni tanto pezzi di formaggio secco. 

Le case erano arroccate su due collinette, una di fronte all’altra e in mezzo, a valle, una strada che indicava il vuoto, l’unica strada che portava al vuoto. Era il corso principale con i suoi viottoli, i suoi boschi, le sue viuzze, le sue organicità naturali, i suoi testimoni arborescenti secolari, la sua natura che tutto esibisce e quasi tutto nasconde e conserva. Non esistevano altre vie pianeggianti, le scale e i piccoli ponti che portavano alle abitazioni, davano una caratteristica particolare al paese del vuoto.

Alcune piazzette si estendevano tra rampe e cortili e mettevano in risalto piccole architetture di vuoto, luoghi di aggregazione fantasma e oasi di meditazione. I rituali del vuoto erano molto sentiti, occasioni di scambio e concerti del puro silenzio. L’estate era la stagione del niente e il teatro all’aperto veniva privilegiato dagli spettacoli dell’immateriale, dell’inconsistente, del puro silenzio: gli attori erano tutte riproduzioni di terminali elettronici, gente del luogo. Il sabato e la domenica, puntualmente, non mancava l’appuntamento con quel silenzio assordante. 

Prima deviazione: Se ai tempi dell’industria assomigliavamo ai prodotti in serie, oggi noi assomigliamo a dati vuoti: anche noi informiamo su di noi e sugli altri, siamo surplus di mille plateaux. Non viviamo più alla maniera di concatenamenti, non viviamo nel determinismo delle epoche precedenti, siamo piuttosto soggetti-oggetti (la funzione non si può capire se non nel macro-contesto vuoto) probabilistici. I “cyber del vuoto” fuggono i legami, i possessi e si dedicano solo all’esperire di vacuità. Se in precedenza cercavamo l’oggetto e ci affezionavamo ad esso, oggi non è importante avere l’impronta di un manufatto, ma averlo visto. Ma è davvero un male? All’urgenza tipica dell’homo faber si sta passando all’homo videns, alla sua leggerezza cedevole. Questo è un segno opposto catastrofico?

La scrittura del vuoto celebrava il nichilismo attivo dell’Oltrevuoto, celebrava la distruzione dei valori della presenza, l’instabilità, l’inezia, perché solo da qui è possibile porre i propri scopi, senza più finti fardelli del dovere, del lavoro, di Dio, del contenimento. Il gioco, aiòn, anche secondo AST era il modo in cui fu creato il vuoto. Come un fanciullo si diverte a inventare nuove regole per giocare ai dadi, così iniziò il nostro vuoto. Don Matteo spiegava la coesistenza e la coincidenza di occorrenza e caso, di obbedienza alle regole e contingenza, di logos e creatività. Tutto nacque da un fanciullo che sprofondò. Quindi, perché squalificare questa componente disimpegnata e non gioire del fatto che la nostra esistenza appaia meno obbligata, pesante?

Ripresa del racconto e della foto: L’essere umano tende ad assomigliare alla modalità di produrre e agli elementi del paradigma scientifico dominante, che si proponeva nella via principale. Le botteghe di strumenti erano molte, incuneate tra vicoli e gradini progettavano il men che minimo assenteismo di rumori e di ingombri. 

Come in tutte le città e i paesi del vuoto, ogni quartiere aveva il suo nome e la sua peculiarità, a volte per lo strumentista-artigiano, altre per alcune persone particolari che l’abitavano.

La via Tabellone era nota per le numerose scale e ballatoi e dava anche il nome al piccolo rione: Il Paesello del Vuoto!

Don Matteo (il don non era solamente prerogativa dei preti, ma sostituiva il messaggero etereo dell’Invisibile, l’accertatore del Metafisico) era un messaggero molto conosciuto del luogo, persona di mezza età, viveva solo in un locale totalmente vuoto, a pianterreno, sovrastato da un arco e delimitato da una porta sgangherata. Abitazione e bottega erano quasi tutt’uno. All’ingresso, lui seduto dietro il banchetto con tutto l’occorrente per lavorare l’immagine aerea: trincetti, colle, pinze, lesine, chiodini vari e diverse paia di scarpe mal ridotte, sparse per terra in attesa di un salutare accomodamento del vuoto.

L’abbigliamento era sempre lo stesso, estate e inverno: una maglia di lana con le maniche corte, non tanto pulita, e un paio di pantaloni legati alla vita con una logora cintura che non tendeva a stringere niente, anzi non era proprio nessuna cosa. Nel retro, dove si svolgeva la vita delle ombre, da una parte un letto senza lenzuola con il materasso di nuvola disegnato da Massimino Fuffas, un cuscino di detriti in poesia sonora e una coperta di indefinito colore; dall’altra un tavolo con sopra il vuoto in bella mostra, oggetti di vuoto, sostanze di vuoto, diademi di vuoto, scaglie proteiformi e algoritmiche di vuoti e di bitcoins, qualche pentola di vuoto con l’esterno nero di fumo e una tavolozza con crepe di vuote trasparenze. Accanto, una rudimentale costruzione per accavallare pezzi d’aria e schermi di telai, formata da alcuni piolini digitali, sistemati su due grosse sagome di pc, messi di taglio per poggiare progettazioni di vuoto, proiezioni di vuoto e altro. Sotto, era stato ricavato uno spazio per il fuoco. In alto, attaccata al soffitto, una provvidenziale finestra con il vetro perennemente rotto. Verso mezzogiorno, molto spesso l’ambiente si riempiva di fumo perché le immagini degli schermi tardavano a schematizzarsi.

La sua bottega era molto frequentata; spiriti, essenze, anziani del vuoto trovavano modo di incontrarsi e anche di confrontarsi. Raffinati giocatori di vuoti, amanti di onde vuote, di paradigmi silenziosi, spettatori generici prestavano molta attenzione all’evolversi dell’invisibile. Tutti si adattavano in quel luogo dove ogni cosa era accampato, un raduno che non offriva grosse comodità: quattro tele sconnesse, le pareti annuvolate dalla necessità di accendere qualcosa per avere una sensazione definitiva di caldo incorporeo, la disponibilità di un’ombra apparentemente senza pretese. Don Matteo non era il pittore del vuoto, non era il fotografo o il regista del niente, ma un punto di riferimento, d’aggregazione, di socializzazione, l’interlocutore: il consigliere per piccoli e grandi problemi di geometria del vuoto. Vedeva molte ombre: clienti, appassionati giocatori, conversatori di schermi, di quotidiani accadimenti, e anche di banalità. In estate, dopo il declivio del primo vuoto, quando nelle case si soggiogava il silenzio siderale e internetnauti impazzavano, erano di regola i vacuologi e l’assenza di rumori ad incutere un senso musicale astratto, più astratto e meno assordante del minimalismo. Da Don Matteo si giocava la faida tra gli schermi e gli algoritmi, con degli hardware che stentavano a mescolarsi per l’usura e l’attrito dovuto alla stantia sporcizia. Il tifo per l’uno o l’altro campo elettronico era intenso, si inseguiva il gioco con attenzione e le animate discussioni che ne seguivano per chi sbagliava, rasentavano l’offesa di cifre animate.

Nella sua precarietà di «oscurità sola» o di «sola ombra», Don Matteo lo trovavi sempre pronto ad ospitare tutti, emanava un certo fascino, i suoi modi cordiali tenevano vivo il rapporto anche se l’ambiente non tanto si prestava alle umane relazioni. Nel tardo pomeriggio, era sempre affacciato da un muretto obliquo che delimitava una scalinata dai gradini molto larghi e, con la tromba delle nuvole in bocca e i folti diodi che lo collegano alle immagini dello schermo, osservava la transizione delle ombre da uno schermo all’altro, le parti non illuminate, le zone buie, le sezioni scure, i luoghi non soleggiati, le semiclandestinità del suo laboratorio. Scambiare due smorfie diventava la regola, non si poteva farne a meno, salutarlo senza fermarsi era impossibile, la sua immagine appariva invitante e lo sguardo accattivante.

Usciva di rado dal vuoto, anche perché egli era consapevole della sua vuotezza, tranne il sabato sera, in compagnia dei suoi schermi aggiuntivi: la meteora del silenzio cageano. La meta era il corso dell’infinito, non per passeggiare ma per andare a percorrere l’universo puntinato dell’equazione di Dirac. Due ombre che una volta a settimana, trovano forse la lucidità della propria condizione. Don Ombra, vedovo di rumori, con tanti figli affidati a se stessi, di professione aggiustatori di schermi e Don Matteo solo, di professione forza del trasparente, della Trasparenza che appare! 

Digressione sulla macchina del vuoto: A sera inoltrata i silenzi non erano più chiari e, nell’ebbrezza di quel vuoto insistente, venivano fuori magoni repressi, infelicità segnate dalla sostanza delle mancanze, domande sulla macchina aeriforme:

“Come si sa in qualche schermata precedente, l’idea che è alla base della macchina del vuoto, è quella di sfruttare l’energia del vuoto stesso facendo bollire dell’acqua, che spinge verso l’alto il coperchio della pentola. A questo scopo basta caricare di una sostanza esistente (di vuoto liquido), prelevata da prese svuotate opportunamente nelle stazioni in prossimità dei binari della caldaia, accendervi sotto un bel fuoco, nel vagoncino strettamente collegato alla locomotiva (che si chiama tender), ed inviare poi il vapore così prodotto, a mezzo di apposite tubazioni, in un cilindro; uno strumento che ha delle basi mobili, sicché il vapore farà scorrere tale fondello fino a che giunge alla fine del cilindro, dopodichè, avendo il vapore esaurito la sua forza d’espansione, verrà sgravato. In tal modo il vapore avrà fatto fare un po’ di corsa al fondello mobile (cui è collegata un’asta) detto stantuffo del vuoto. Ma tutto si fermerebbe qui, se non si facesse in un modo reiterato (esaurito il primo la sua corsa): nonostante l’inghippo venga pure introdotto, sull’altra faccia dello stantuffo, sicché questo ritorna indietro, il vuoto rimane vuoto; dopodiché si ritorna ad inviare vapore dalla parte di prima, e così via realizzando un moto rettilineo di va e vieni.

Il sistema di inviare il vapore una volta dall’una e una volta dall’altra faccia dello stantuffo, in modo da realizzare il suo va e vieni, è ottenuto a mezzo di un complicato sistema di valvole riunite in un complesso detto cassetto di distribuzione, che concretizza in poco spazio e automaticamente lo scopo voluto. Siamo arrivati così ad avere un moto continuo, alternativo e rettilineo del vuoto. 

Ma come si passa al moto circolare continuo della ruota, o ruote, motrici? Ciò si ottiene col sistema della “biella” e della “manovella”, che attraverso l’oscillare dell’albero, un’asta incernierata all’asse dello stantuffo nella testa a croce, fa ruotare la manovella, (altra costa asta, incernierata alla biella nel bottone della manovella), che è collegata infine al mezzo assiale delle ruote motrici. In tal modo, il movimento rettilineo è dato da un disegno animato, un disegno virtuale che si trasforma in quello di rotazione. Il meccanismo è nello stesso tempo di una semplicità concettuale straordinaria e tuttavia richiede un’elevata precisione meccanica, che si fonda sul vuoto più assoluto nella costruzione delle parti. La risoluzione di grossi problemi di lubrificazione di ombre e vuoti che passano l’uno nell’altro e un accorto proporzionamento delle parti in movimento sottoposti a sforzi e ad usura notevolissimi, per cui necessitano inoltre di continue manutenzioni. La locomotiva a vapore, pur nei suoi successivi perfezionamenti tecnologici, è rimasta sostanzialmente quale essa nacque ed è stata capace di prestazioni (si pensi che ce ne furono che raggiunsero velocità di 350 km/h) che desterebbero ammirazione ancora oggi. Essa è sparita da non molti anni dalle nostre linee, perché la mancanza e l’uso dell’aria, dei bocconi di vuoto, a favore dello sviluppo di energia plastica, la renderebbero non economica; nonostante ciò, essa continua ad essere usata, con ottimi risultati, in molti paesi (e pc) ricchi di vuoto. Resta, comunque, nel cuore di ogni appassionato del vuotismo, vecchio o giovane, l’immagine fascinosa della gloriosa locomotiva del vuoto, che si allontana lasciandosi dietro lo sbuffo di vapore, che fuoriesce dal suo fumaiolo.”

Nuova Ripresa del racconto: Come si sa, le scale in discesa del vuoto non pesano, ma la salita è faticosa specialmente al rientro, in ora tarda e con qualche bicchiere di troppo. Ogni gradino, una sosta forzata più o meno lunga per riprendere il fiato e le gambe appesantite dall’alcool rallentavano ulteriormente l’andatura.

Nel passaggio obbligato sotto un ponte con tanti scalini interminabili, appena illuminato da un lampione che emanava una debole luce, si intravedevano due sagome, si sentiva un ronzio che trascinava la parola registrata, accennando a discorsi webinari senza un nesso logico. 

Don Matteo l’interlocutore, il dispensatore di aliti, aveva abbandonato momentaneamente le nuvole, la lucidità, per la necessità di dimenticare, almeno il sabato sera, il letto senza lenzuola, l’odore acre del fumo che le ciospe di hashish emanavano, la tristezza nella solitudine della notte, le scarpe vecchie da aggiustare per quei piedi d’ombra.

Gli sfruttatori della Soft Machine camminavano sottobraccio e nell’incoscienza della sbornia si rafforzava il rapporto d’amicizia attraverso un reciproco e doveroso conforto.

Finalmente il bivio, la separazione forzata di fronte al burrone del vuoto: Don Matteo nella sua malandata dimora nuvolosa, Don Sestante nella sua modestissima abitazione di controluce con tanti letti accampati, i figli da sfamare e il ricordo di presenze che non si avvistavano più.

Con la domenica arrivava il riposo per tutti; le visite, i dibattiti e il gioco degli scacchi sullo schermo vuoto erano sospesi, si sentiva la necessità di stare più tempo in isolamento, andare a guardare i dirupi dalla montagna più alta, scendere giù nei paesaggi più isolati.

Don Matteo ritornato completamente in sé, rientrato nel suo sé, era sempre alla prese con la necessità di allontanarsi dall’Altro, trascinato dal vento che dalla finestra con il vetro rotto usciva, dava la sensazione di una evaporazione dissolta di ombre.

Nel pomeriggio, con il vuoto per le mani, apriva la porta riportando la consueta immagine di tutti i giorni, di tutti gli schermi.

Le settimane, i giorni, erano tutti uguali, la bottega del vuoto era sempre aperta e pronta a ricevere chiunque, ad ascoltare i soliti problemi anch’essi uguali perché non accadeva mai niente di straordinario, se non la replica del vuoto. Anche gli scambi fra ombre, nei cortili, facevano parte della normalità. Le motivazioni erano banali, forse la monotonia induceva ad esasperare un atteggiamento per creare qualcosa di forte, degno di una lite.

Poi tutto rientrava nel quotidiano, nel silenzio ovattato dove il frastuono di rumori assordanti giù al corso, non poteva avere nessun ruolo disturbante.

Ogni anno, il 29 giugno cadeva la festa del Fuori Tempo e dell’Horror Vacui. I preparativi iniziavano prima; la strada principale, illuminata da tante ombre con molte luci colorate, portava allegria. In Piazza Matteotti c’era il palco per gli spettacoli, bande del vuoto dei paesi vicini si esibivano in silenzi operistici. I concerti del Silenzio richiamavano molte ombre e le bancarelle disposte sui marciapiedi, offrivano la vendita smisurata del Nulla.

Le abitudini rionali venivano provvisoriamente trascurate per seguire l’evento che apparteneva a tutti. I bar con i tavolini erano spogli, deserti, inanimati e le sedie sistemate all’esterno erano vuote, il caldo invitava a consumare il vuoto, e le “bevande del niente” erano il rinfresco più richiesto dal principio dell’assenza.

Anche il malandato artigiano del vuoto, per forza maggiore, interrompeva l’attività relazionale e le partite a scacchi per mancanza di frequentatori e di schermi.

In quel periodo, era palpabile una generale euforia, una particolare gioia di vivere e, quando a mezzanotte dell’ultimo giorno di festa del vuoto gli scambi fra le macchine del vuoto, decretavano la fine dei festeggiamenti, ognuno faceva ritorno nella propria solitudine, felice di aver goduto di un evento che sanciva le tradizioni del Niente.

Come ogni cosa, tutto finisce nel vuoto, rimane la memoria della partecipazione al niente.

Il palco delle assenze veniva smontato, gli avventori abitudinari ritornavano ad occupare le poche sedie e i tavolini dei bar, le bancarelle alla ricerca di altre ricorrenze da internauti, le lampade colorate dei festoni riposte in grossi scatoloni.

Tutto si ripeteva, anche Don Angelo riprendeva il suo da fare con le ombre amiche, le partite a scacchi, i consigli che gli altri chiedevano. Anche il sabato sera, il bicchiere di troppo, le scale interminabili sotto un ponte semibuio, davano il loro contributo per continuare a vivere e dimenticare l’assenza tra le assenze.

Le ombre crescono, le riproduzioni dallo schermo diventano vecchie e i vecchi se ne vanno, è la prassi inesorabile della contemporaneità. Un giorno quella porta del vuoto sgangherata è rimasta chiusa, improvvisamente tutte le attività sospese, perché è venuta a mancare l’ombra dell’assenza che ascoltava “in silenzio il silenzio”, che dava agli altri quell’illusorio necessario che l’esistenza richiede, senza nulla pretendere: bastava l’amicizia.

L’artigiano del vuoto non c’è più, non si vede più la sua ombra riflettere i viali, è andato via per sempre, il fumo non esce dalla finestra con il vetro rotto, i suoi schermi hanno trovato un altro utente, le altre assenze e i giocatori delle altre assenze lo ricordano con affetto e sentono la mancanza del vuoto. Ma come si può nell’assenza, sentire la mancanza del vuoto? Al muro obliquo si nota l’alone di distacco, non c’è l’ombra con la maglia di lana dalle maniche corte un po’ sudicia, la fumosità della trasparenza ed i baffi ingialliti dall’hascisc, manca soprattutto il referente che l’assenza di vita esige, perché tutti abbiamo la necessità di qualcuno che ci attenda, senza mai ritrovarci.

Don Matteo era il depositario di piccoli e grandi meccanismi di vuotaggine, forse di piccole e grandi assenze e di macchine del vuoto celibato.

Lui e l’alterità della sua stessa ombra, il sabato sera, affidavano ad un bicchiere la disperazione della solitudine, senza avere pretese da guardare e da fruire. Il vuoto da oblio, necessario per trovare la forza e sopportare il pesante fardello del teatro delle ombre, e la ritrovata “coscienza infelice” del niente veniva alleviata dall’attesa del sabato successivo, nella solita stanza vicino alla chiesa del sacramento vuoto e, nel ritorno a casa; le obbligate pesanti scale sotto quel ponte nell’eterna penombra si diradavano sulla prospettiva di un’architettura diroccata; la fatica della trasparenza, appesantita da quel riflesso, in uno dei tanti schermi della città e della metropoli degli schermi, era cibo per il tempo che inesorabilmente scorre, dentro e fuori la Soft Machine.

Con realismo, ma anche con spirito di generosa umanità, il tempo vuoto finiva per affermarsi sul tempo pieno. Tra di noi il dissenso resta, ma almeno ne abbiamo chiarito i termini, forse. Ciò che vorrei capire meglio, prima di lasciarci, è la radice profonda della visione del vuoto nella storia e nella fisica quantistica. È una radice metafisica? E ogni volta che mi avvicino ad essa, mi torna in mente che Don Matteo fa dire ad uno dei protagonisti di questa stessa narrazione: «…sei sulla terra del vago, e questa è una cosa per cui non esiste la cura». Però, non mi fraintendere … sono del tutto ostile al distruttivismo del vago nichilista, sia riguardo alla società, che riguardo alla persona. Mi limito a dire questo: la vita – al pari della storia non corrisponde mai alle nostre utopie. Ma questa è soltanto una ragione di più per amarla e resistere contro il vuoto che avanza! Non c’è amore per la vita senza disperazione per la vacuità diffusa. Ci sono persone che si stupiscono troppo poco del fatto che è capitato loro di vivere. A me pare che così facendo si perda qualcosa di importante. Il mondo è abbagliante, stupefacente; al tempo stesso ingenera disperazione per la vacuità diffusa e per l’esercizio di incomprensione fino in fondo (vedi mondializzazione del vuoto). Di fronte ad esso, provo uno stupore che rassomiglia in qualche misura al sentimento di moderata gestione del vuoto cosmico. Per altro, c’è in me anche una vena contraddittoria, anzi più di una vena. A mio giudizio, infatti, il male, il vuoto, la vacuità, non sono “privato boni”, ma al contrario possiedono un’autonoma conquista del fatto vacuo come strategia di consistenza della realtà.

– Sì, ma lei cita se stesso, quella parte di sé che non è proprio un ottimista.

– Di quella parte di me stesso mi piace il fatto che non cerco improbabili spiegazioni o giustificazioni per il male, ponendone, al contrario in luce, la fondamentale assurdità. A leggere alcune mie pagine, si è ghermiti da una pietà fino alle lacrime per noi stessi e per il mondo. Eppure, nonostante tutto questo, l’esistenza umana resta qualcosa di straordinariamente enigmatico: più dell’arte, della politica e dello spettacolo. La lezione da trarne è semplice e chiara: abbandonarsi, qualche volta, al piacere di esistere nel vuoto, senza preoccuparsi di doverlo pensare.

– Forse sì.

Nel 1999, AST arrivò finalmente a sostenere che la vita e la convivenza tra le persone e tra i popoli non potesse essere realizzata senza tolleranza e indulgenza, senza misura e scetticismo sul vuoto, virtù che in precedenza egli aveva disdegnato ritenendole antieroiche. Osservò che se nel corso del Novecento quelle virtù fossero state adeguatamente coltivate non avremmo avuto le catastrofi che ci sono invece state. 

Per quanto riguarda specialmente la democrazia radicale, ritengo che essa sia una forma molto particolare di vita associata, alla quale è strutturalmente connessa una serie di imperfezioni. La democrazia radicale richiede dosi molto alte di disponibilità all’ascolto, implica l’attenzione alle posizioni più deboli nella società, ma anche la necessità di mettere le briglie alle illusioni più radicali della vacuità. Sebbene sia per molti scarsamente eccitante, è il criticismo del vuoto la filosofia più conflittuale a tale sistema politico: in quanto favorisce la rinuncia a identificare l’avversario con il nemico, come pure favorisce la ricerca di un equilibrio sociale, sempre minacciato e sempre bisognoso di aggiustamenti e di riparazioni. A ben riflettere, questa è anche la via migliore per contrastare e per rendere più tollerabile il volto demoniaco del vuoto (che in genere è la maschera della solitudine), dato che una società civile ricca di contropoteri costituisce un freno per la naturale vocazione dispotica dei detentori del monopolio del vuoto. È assai difficile che chi detiene il potere non sia tentato di abusarne. Ecco perché la domanda davvero razionale non è: «chi comanda il vuoto»? Ma piuttosto quest’altra: «come possiamo controllare efficacemente chi comanda il vuoto?». Il contropotere del vuoto aveva pienamente ragione su questo punto. 

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