Habitants délicats des forêts de nous-mêmes (J. SUPERVIELLE, L’escalier, Gallimard, Paris 1956, p. 124 [Abitanti delicati delle foreste di noi stessi]). «Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta. Fugge? No, non fugge, e nemmeno vola: scivola, dilegua, scompare, come la rena che dal pugno chiuso filtra giù attraverso le dita, e non lascia sul palmo che un senso spiacevole di vuoto»
Antonia Pozzi
A incontrarlo per strada, vestito in sopraffine inadeguatezza, ma senza sciatteria, tutto il contrario del pieno dell’artista del ‘900, ma anche del provocatore di avanguardia (con tanto di nuvole sotto le scarpe, la catenella della pioggia sulla schiena e lo zaino a tracolla delle merende adombrate), Don Zaci del Vuoto potrebbe essere scambiato per un seminarista, per un monaco di clausura in licenza, e nemmeno per uno di quelli di oggi, ma di parecchi anni fa: zittisce lentamente, con elegante cadenza, con pause sonore composte di monosillabi, senza inflessioni dialettali, e ti guarda in faccia, ma senza spavalderia, ora sorridendo ora con atteggiamento pensoso, sempre dando l’impressione di calibrare con giudizio di «silenzi pieni», di horror vacui. E se quel che gli stai dicendo gli interessa, o addirittura lo lusinga, non si entusiasma, e sembra quasi ripiegarsi su se stesso, con la modestia di chi è abituato a darsi un implosione nel vuoto, una stoccata mentale del niente; giorno per giorno, proprio come i monaci di una volta. Ma è soltanto un’impressione: perché a star con lui a lungo, a lasciarsi che si sciolga nei suoi silenzi e nella sua sottile ironia, poco per volta la prima immagine di un Messaggero del Vuoto, mite, dolcissimo, rivela impensati retroterra dai quali emerge un carattere sicuro e irto di misteri, di enigmi.
L’avanguardia dei più giovani, anche in politica del resto, non ragiona più in termini di p. 38, specialmente quando sa di essere alla testa del movimento; e magari disposta a far anche un po’ di autocritica, ma non ha dimenticato la finalità della propria performance; e il Messaggero del Vuoto, in effetti parla dell’immaterialità del nostro tempo, e delle avanguardie in particolare, con lo stesso accorato distacco – per riprendere un paragone politico – con cui da qualche tempo si discute, negli ambienti dell’estremo vitalismo, del dissenso all’horror pleni, dell’euroscetticismo e del pluralismo di una qualsiasi assenza.
Questi appunti si sono potuti raccogliere nella penombra del vuoto, disegnata nei colori mutabili dell’invadenza. È già notte sul breve ripiano dove vigila il suono del vuoto. E le colline, una inoltrata nella visione dell’altra, accolgono l’ombra come un velo che coordina le tinte dei colori.
C’è silenzio di vuoto, anche se per ragione di queste note, si è dovuta turbare un’apparente solitudine di suoni e di echi. La notte pertanto è indocile e ribolle in un irrequieto turbinio di ombre. Solo il mattino può essere propizio alla fuga, perché non è consigliabile soggiornare a lungo nei meandri del Vuoto.
L’animo a poco a poco ne subisce la suggestione, e una sorta di alchimia trasforma tutto, sostanza e memoria, oggettività e immaginazione. Come un irrefrenabile caos, che prelude alla creazione: l’aria che riempie le colline infatti è molesta e frastornante, piena di sussurri e di allusioni.
Del resto, che non sia un integrato nella cultura tradizionale della nullificazione, lo si capisce dal suo stesso curriculum di performer, e dal modo con cui lo commenta: quando gli ho chiesto, durante il nostro lungo scambio di «inquiete serenità», come avesse cominciato a performare, mi ha risposto quasi con un passo di danza di chi non è abituato a farsi cogliere in colpa: “Ma io studi sul vuoto non ne ho fatti!”. E allora, gli ho chiesto, come fa a sapere tanti fraseggi di vuoto, tante note di silenzio, tanti borborigmi di malumore blues e a mostrare una conoscenza così virtuosistica delle possibilità del sintetizzatore, con i Capricci del Vuoto scritti per Ruggero Riccadonna; e, poi, come fa a ricordarsi a memoria tante opere sul vuoto di Judith Escobar? – “Nulla di strano – risponde quietamente – mi occupo di vuoto da quando avevo tre anni, e sapevo delle immagini del vuoto della televisione, Nuages di Niccolò Macchinelli e Le nozze di Salamoia … Col sintetizzatore ora mi arrangiucchio … e conoscer i silenzi di oggi e di ieri è il mio mestiere!”.
Dice queste cose con la più grande naturalezza, quasi sorpreso dalla mia meraviglia e dalla mia consueta curiosità verso il vuoto, verso la cultura dell’assenza. Ma poi aggiunge: “La razionalità naturale fu dominata per quasi due millenni dalle idee di Callante, successivamente reinterpretate dalla Scolastica al fine di renderle compatibili con i dogmi della fede cristiana. Nella fisica, Callante sostenne che dichiarare l’esistenza del vuoto – come aveva fatto Dimotico – figurava come una sussurrata infrazione del principio di non contraddizione. Per Callante uno spazio privo di oggetti (cioè vuoto) non corrisponde affatto al niente, ma a una propria stabile realtà. Né il vuoto per Callante può essere preso in considerazione in quanto ente immateriale, dato che la filosofia naturale ha come oggetto solo l’essere in quanto essere. Callante, pur concependo, d’altra parte, l’universo come finito, negò tuttavia risolutamente che oltre i confini del mondo vi fosse il vuoto. Il filosofo di Stempiaggine considerava, inoltre, il mondo sublunare composto da quattro elementi (fuoco, aria, terra e acqua) e sosteneva che a ognuno di essi corrispondesse un luogo naturale, dal quale gli elementi potevano essere spostati solo per veemenza. Nel loro luogo naturale, gli elementi non avevano peso, così come i media di qualche artista concettuale che, come lui stesso dice, si presentano “senza peso”. L’aria, dunque, per il filosofo di Stempiaggine e per i suoi innumerevoli seguaci “non pesava, né esercitava pressione”.
Ora, ad ascoltarlo, son io che mi sento quasi in colpa di aver studiato per gradi, banalmente, dalla storia dell’arte all’iconografia e di aver perso tante ore della mia vita a farmi una ragione visiva e rappresentativa dell’irrappresentabile.
Ma Don Matteo Zaci continua tranquillo a raccontarmi le tappe della sua vita di apprendista solitario e di autodidatta della filosofia: cominciò nel 1966, quando aveva diciannove anni (è nato a Napoli il 4 aprile 1947), ad avere come punto di riferimento Walter Benjamin; ma fin da ragazzino era stato influenzato da Adorno e da Max Horkheimer (“Max, mi dice, lo conoscevo a tredici anni”); crede però che, sul piano filosofico, questa influenza di Adorno non esista, e che sia stata soprattutto di carattere infografico. Mi racconta poi dei suoi studi classici, questi sì regolari, e della sua iscrizione alla facoltà di lettere dell’università; mi cita gli autori che leggeva a quattordici anni (il Benjamin de Il Dramma Barocco Tedesco, Sartre e Camus); mi ripete la sua avversione verso i piani di studi degli Istituti Universitari (“Richiedono un enorme dispendio di energie, ma nella facoltà di Lettere quella che è la composizione vera e propria non s’insegna: non si impara a scrivere una poesia, e si fanno ancora i fondamenti della linguistica popolare calata nella dimensione discorsiva quotidiana, quando non si tratti di una tecnica specifica, che non ha nulla a che vedere con la scrittura stessa …”); mi racconta di una certa paura della retorica del vuoto che lo aveva preso, ormai molti anni fa, quando non voleva sentir parlare di Callante, di Demolito, Parsimonia e Pierre Hadot: “Era una reazione di repulsione – mi dice – perché io ho sempre cercato la stilizzazione dell’emotività; l’urlo del vuoto non l’ho mai sopportato … Molti seguaci di Callante incontrarono difficoltà nel conciliare alcune conclusioni del filosofo di Stempiaggine con i dogmi della Chiesa. È questo, ad esempio, il caso della tesi aristotelica dell’impossibilità logica del vuoto. Nel secolo XIII, i filosofi e i teologi del Situazionismo Mistico contestarono questa concezione, nella quale videro la negazione dell’onnipotenza divina: se Dio infatti avesse voluto, avrebbe potuto rendere il vuoto. Essi ribadirono tuttavia che era impossibile produrre il vuoto in natura con forze “naturali”. Sviluppando le concezioni della Fisica callantese, alcuni autori medievali elaborarono la teoria dell’orrore del vuoto da parte della natura: una nausea costitutiva per il vuoto induceva la natura ad impiegarsi in ogni modo per frenare che esso potesse prodursi.
Dai poeti, nonostante tutto, è possibile ricevere e consentito attendersi, nella successione dei secoli, gli impulsi suscettibili di ricollocare la persona umana nel cuore dell’universo, di astrarlo per un istante dalla sua avventura dissolvente, di ricordargli che per ogni dolore e ogni gioia esteriori, c’è un luogo indefinitamente perfettibile di risoluzione e di eco. Nel 1932 André Breton non poté compiere un forma importante di Les vases communicants: l’inserzione di illustrazioni fotografiche, sulla falsariga di Nadja. Un gruppo di immagini presenti nell’archivio fotografico di Breton dimostra che questi s’era impegnato nel ricongiungere illustrazioni che avrebbero dovuto rappresentare implicazioni non verbali, in grado di fornire un contesto spaziale all’immaginazione del lettore alle prese con giochi di parole, similitudini e associazioni sotto forma di rebus: «Il poeta futuro supererà la deprimente idea dell’irreparabile divorzio fra l’azione e il sogno. Egli porgerà il magnifico frutto dalle radici aggrovigliate, e saprà persuadere coloro che lo assaporano che non ha nulla d’amaro. Portato dall’onda della sua epoca, egli assumerà per la prima volta senz’angoscia la ricezione e la trasmissione dei richiami che accorrono fino a lui dalla profondità dei tempi. A ogni costo, egli terrà presenti l’uno all’altro i due termini del rapporto umano, la cui distruzione renderebbe istantaneamente lettera morta le conquiste più preziose: la coscienza oggettiva delle realtà e il loro sviluppo interno, in ciò che, per virtù del sentimento individuale da una parte, universale dall’altra, esso ha di magico fino a nuovo ordine. Questo rapporto può essere considerato magico nel senso che esso consiste nell’azione inconscia, immediata, dell’interno sull’esterno e nel senso che nell’analisi sommaria d’una tale nozione s’insinua agevolmente l’idea d’una mediazione trascendente che, del resto, sarebbe quella d’un demone piuttosto che d’un dio. Il poeta s’ergerà contro questa semplicistica interpretazione del fenomeno in causa: nel processo da tempo immemorabile intentato dalla conoscenza razionale alla conoscenza intuitiva, spetterà a lui produrre il documento capitale che porrà fine al dibattito. Da quel momento in poi, l’operazione poetica sarà condotta alla luce del sole. Si rinuncerà a mettere sotto accusa certi uomini, che tenderanno a diventare tutti gli uomini, per via delle manipolazioni a lungo sospette agli altri, e per tanto tempo equivoche perfino per loro, alle quali essi si dedicano per trattenere l’eternità nell’attimo, per fondere il generale con il particolare. Essi stessi non grideranno più al miracolo ogni volta che dall’unione più o meno involontariamente dosata, di quelle due sostanze incolori che sono l’esistenza sottoposta alla connessione oggettiva degli esseri e l’esistenza che si sottrae concretamente a tale connessione, essi saranno riusciti a ottenere un precipitato d’un colore bello e durevole. Essi saranno già fuori, uniti agli altri in pieno sole e non avranno uno sguardo più complice e più intimo di quello degli altri per la verità, quando essa andrà a scuotere la sua chioma sfavillante di luce alla loro buia finestra».
La teoria dell’orrore del vuoto fu impiegata per interpretare diversi singolari fenomeni naturali: la difficoltà di dividere due superfici aderenti e del tutto levigate; la difficoltà di aprire un capote perfettamente sigillato; la mancata fuoriuscita del liquido dal fondo sforacchiato di una caraffa colma d’acqua, la cui bocca era stata perfettamente chiusa; e, infine, la limitata altezza cui pompe e sifoni riuscivano a sollevare l’acqua mediante aspirazione. Ancora con l’orrore del vuoto veniva sciorinata la spaccatura di bottiglie tappate piene d’acqua e raffreddate: si riteneva erroneamente che l’acqua, congelando, diminuisse di volume e, di conseguenza, si supponeva che la natura, provoca la rottura della bottiglia per evitare che a seguito di tale corrugamento di volume si desse vita al vuoto. Bisogna far ricorso all’immaginazione per spiegare il concetto. Tutto ondeggia, il mare galleggia, l’aria beccheggia, così anche il vuoto balla. La sua energia è più o meno zero, in ogni suo punto. Ma non è detto che sia uno zero veritiero. Può subire minuscole fluttuazioni (+1–1) che possono dar origine a corpuscoli virtuali, che subito si ricongiungono in uno zero. Oppure una di queste ristrette ondulazioni potrebbe essere atipica (+1^x-1^x) e dare origine all’Universo. E quindi alle dimensioni, che prima non esistevano, ed al tempo, che prima era più o meno fermo. Più o meno. Oggi sappiamo che il vuoto ha una sua vitalità, cioè si sposta, ma la cosmologia, che studia l’Universo come oggetto unico, ci suggerisce che per operare qualsiasi cambiamento dobbiamo attingere energia dall’Universo stesso, quindi sottrarla da una parte per unirla altrove. Il totale non cambia. L’Universo si muove, si espande, ma si raffredda. Il numero quantico dell’energia dell’Universo è zero. Come un’equazione lunghissima, scritta da un matematico impazzito, il cui risultato è sempre zero. “Per esempio – precisò Don Matteo – per creare un modello di intelligenza artificiale, era necessario un enorme quantità di dati e un considerevole sforzo umano per annotare questi dati. Questo processo richiedeva tempo, risorse e persone dedite all’annotazione dei dati, il che lo rendeva costoso e limitava la sua applicabilità solo a casi specifici. I modelli di intelligenza artificiale generati da questa metodologia erano potenti, ma molto specializzati sul vuoto. Oggi, grazie ai Transformation Models, le cose stanno cambiando radicalmente. Questi nuovi algoritmi del Vuoto, una maggiore ascendenza di calcolo e una migliore aggiunta consentono di insegnare direttamente alle macchine dai dati, eliminando la necessità di un processo di promemoria”.
– Ma scusi – gli domando – lei la saprebbe teorizzare una fuga dal vuoto?
Don Zaci non si scompone: “Ora dovrei rimettermi in esercizio …”.
– Ma allora una volta deve averne tentata qualcuna!
“Sì, certo; studiando le grandi fughe dei maestri del vuoto, potevo riuscire anche in questo tipo di composizione … Le teorie callantiane del vuoto e degli elementi diedero inizio a discussioni e contestazioni a partire dalla metà del secolo XVI. In questo processo si venne ad accentuare sempre maggiore rilievo la rinascita dell’atomismo, che riproponeva come centrale ed essenziale la dottrina dell’esistenza del vuoto. D’altra parte, lo sviluppo delle attività empiriche contribuì a rimettere al centro del dibattito la questione del peso dell’aria.
Nella prima metà del Seicento un notevole sperimentatore interpretò l’aumento di peso osservato nello stagno calcinato come causato dall’assorbimento di aria da parte della lega metallica durante il processo di calcinazione.La pressione dell’aria restò sostanzialmente incompresa fino all’inizio del Seicento, nonostante qualche intuizione da parte di alcuni autori medievali. Tra i primi a proporre idee innovative sul vuoto e sulla compressione dell’aria fu l’olandese Alito D’Oro. Egli ammise, infatti, l’esistenza del vuoto e riconobbe che l’aria preme in ogni direzione. Egli fu anche tra i primi a introdurre il concetto di elasticità dell’aria. Alito D’Oro comunicò queste sue idee innovative al filosofo dal naso aquilino, che negava risolutamente il vuoto, sviluppando col pensatore francese una vivace e importante controversia. Negli anni centrali del Seicento, nel cuore della Rivoluzione Scientifica, il dibattito sul vuoto e sulla pressione atmosferica rappresentò uno dei punti nodali delle discussioni sulla costituzione della materia e sulla natura dell’universo. Con quei delicati concetti si misurarono Galileo e Cartesio, Gassendi e Hobbes, Pascal e Newton.
Non c’è dubbio questa lucentezza degli scienziati, il loro presentarsi armati di buon senso empirico e timidezza universale, sconcerta e attrae. Forse, Don Matteo, se fosse vissuto ai tempi del filosofo dal naso aquilino, sarebbe stato un “enfant prodige del vuoto” e del virtuosismo matematico, l’avrebbero costretto a studiare l’algebra, la geometria euclidea e non e il contrappunto dei vuoti universali, l’armonia delle nuvole e le “grandi forme invisibili della natura”; e invece la sua è una generazione che sente di appartenere «all’avanguardia del suicidio poetico», e già guarda con occhio critico i padri consacrati dell’epistemologia del Novecento, non ne vuol sapere di regole precostituite, di serialismo integrale, ecc.: “Non c’è dubbio – mi dice – che le avanguardie poetiche di oggi danno numerosi segni di stanchezza e il suicidio marinettiano è diventato un vessillo; in fondo quasi tutti i poeti oggi in attività, nel campo cosiddetto della neo-neo-avanguardia, tendono a semplificare il loro linguaggio con l’abbraccio del vuoto: non riescono più a reggere con intima coerenza le loro complicazioni … Guarda il caso di Paul Celan, oggi: scrive l’inscrivibile, che è semplicemente un recupero dell’indicibile, passando attraverso un confronto, quasi impossibile, col vuoto; ma la sua coerenza postuma, quella post-poetica, non c’è più. Del resto, questa è la sorte di chi è troppo radicale”.
Sono trascorsi millenni in questo perenne dibattito e oggi la sapienza delle discipline dure ci offre un quadro della natura che rispecchia perfettamente quanto già percepito dalle antiche culture nella loro visione della persona calata nell’universo. Il Sutra del Cuore (I sec. d.C.), infatti, recita:
La forma non è diversa dal vuoto,
il vuoto non è diverso dalla forma,
la forma è proprio tale vuoto,
il vuoto è proprio tale forma.
Le persone perciò, nel loro lungo esplorare la natura, si riscoprono oggi nuovamente di fronte a un antico pensiero espresso da Parmenide intorno al 500 a.C.: « esiste solo l’essere, il vuoto non esiste perché se esistesse sarebbe e quindi non potrebbe essere non essere. Perché il non essere non è, non esiste ». Don Matteo ha un approccio del concetto di vuoto in relazione alle cose differenti da quelle che normalmente la maggior parte di noi tende ad avere:
– Vasaio: “C’è una certa bellezza nella irregolarità che non notiamo, non importa per quanto tempo, non importa se con tanta o poca difficoltà lavori una pasta per modellare una porcellana, alla fine tutto quello che devi fare è fare un buco, uno spazio all’interno della palla di materiale. A volte questo spazio interno non è ben fatto, non è regolare, ma di certo è reale, ed è in questo vuoto del vaso che si trova la sua utilità, non nelle pareti. Modella il vaso, ottieni una forma regolare o irregolare, fallo bello o brutto, ma è solo lo spazio vuoto in esso che fa in modo che sia utile, che gli fa trovare il suo scopo. È lo stesso che dire: “guarda che bella bottega, quanti begli strumenti, è un posto speciale”, ma in realtà è lo spazio all’interno di essa, quello che si “usa”, quello che si fa dentro, che rende il posto speciale, pratico altrimenti non c’è scopo, è inutile. L’importanza di ciò che ‘è’ dipende da quello che ‘non è’ ”.
È molto raro notare lo spazio vuoto delle cose che quotidianamente ci circondano e pensare che è proprio quel vuoto ad essere la cosa più importante. Ad esempio, senza uno spazio vuoto, il bicchiere è inutile perché non potremo versarci dentro da bere. Immagina che la stanza in cui ti trovi che non abbia nessuno spazio vuoto: saresti intrappolato come Ian solo nel blocco di Beskar in Star Wars, o nella replica di Black Mirror. E che dire dello spazio interpersonale all’interno del quale due persone si definiscono intime e dello spazio che invece si interpone quando per strada si evita di venire a contatto con sconosciuti? Questo per affermare con certezza che il vuoto non è vuoto. Se consideriamo che il niente non è importante, non vediamo la realtà delle cose: il vuoto è una cosa in sé che è di vitale importanza. E questo è un concetto base per imparare a vivere con pienezza la nostra realtà, la nostra vita.
– Vasaio: “Ogni giorno controllo come va la mia vita, se sono troppo impegnato ad aggiustare cose, a fare qualcos’altro di nuovo, a pensare a qualcosa, ecc., e se mi accorgo che la giornata è piena allora mi fermo per almeno 5 minuti e creo uno spazio vuoto in cui lascio tutto da parte per un po’: chiudo gli occhi, non faccio niente ma nutro la mente.”
Dal punto di vista della cognizione mentale, nella nostra testa, i pensieri e le emozioni che abbiamo, da dove vengono? Sembra che ci sia uno spazio vuoto nella mente da cui tutto sorge. Don Matteo cerca di ricordarci di prestare attenzione a questo spazio vuoto nella mente e di supportarlo. Possiamo provare in questo momento qual è la sensazione che stiamo avvertendo e vedere che cosa sorge nella mente. Chiudiamo gli occhi inspiriamo profondamente dal naso ed espiriamo dalla bocca, proviamo a sentire una sorta di spazio vuoto nella mente che si apre nella testa e rilasciamo ogni tensione. Stiamo così per 5 minuti, come insegna il maestro. Bella sensazione vero?