Jacques Herzog e Pierre De Meuron sono noti non solo per la progettazione di musei innovativi – dal Sammlung Goetz di Monaco al Tate Modern di Londra fino al Pérez Art Museum di Miami – ma anche per le intense e produttive collaborazioni che da sempre hanno instaurato con un gran numero di artisti. Riproponiamo qui un colloquio tra Julian Rose e Jacques Herzog su arte e architettura, e sulle loro trasmutazioni alchemiche, pubblicato da Artforum (marzo 2018), nell’ambito della serie di conversazioni dedicate al tema dello spazio museale.
Julian Rose: Al giorno d’oggi è frequente che gli architetti di un certo livello collaborino con gli artisti: è un modo per comprovare il loro successo o per sottolineare una raggiunta qualità culturale. Insieme a Pierre [de Meuron] sei stato forse tra i maggiori responsabili di questa tendenza. Le vostre collaborazioni sono leggendarie, se si pensa che già nel 1978, freschi di studi di architettura, avete progettato una performance con Joseph Beuys per il Carnevale di Basilea. Sarebbe interessante approfondire dal punto di vista storico e teorico la relazione tra architettura ed arte, e capire cosa vi ha portato a questo tipo di collaborazione. Cosa offriva l’arte che sembrava mancare all’architettura?
Jacques Herzog: Pierre ed io siamo cresciuti a Basilea, città in cui istituzioni come la Kunsthalle e il Kunstmuseum hanno precocemente dato spazio a importanti artisti del dopoguerra, prima di altri musei d’Europa. Abbiamo visto le sculture di Donald Judd al Kunstmuseum nei primi anni Settanta, quando era ancora difficile vederle persino in America. Nel 1977 lo stesso museo fece la scelta controversa di acquistare ed esporre l’installazione Hearth I [1968-74] di Beuys, artista che non godeva ancora del riconoscimento dovuto: usava materiali non accettati in arte, come fili di rame, grasso, feltro. Era tutto molto affascinante per noi.
JR: Affascinante perché mai visto prima? O perché apriva alle possibilità che tu stesso stavi cercando di esplorare in architettura?
JH: Quando ero giovane non pensavo di diventare architetto. Pierre ed io eravamo incuriositi dalla chimica, dalla biologia e dall’arte. Poi decidemmo di iscriverci ad architettura spinti da un impulso sincero, pensavamo fosse un campo d’azione in cui combinare i nostri interessi.
JR: Eravate attratti dal potenziale interdisciplinare dell’architettura…
JH: All’inizio sì. Ma presto ci rendemmo conto che l’architettura era piena di concetti che non ci interessavano. Eravamo alla metà degli anni Settanta, nel pieno declino del Modernismo. Non riuscivamo a pensare a noi stessi come agli eredi di maestri del calibro di Le Corbusier o Mies van der Rohe. Sentivamo che il Modernismo come ideologia aveva perso credibilità. In un certo senso l’architettura non aveva più una tradizione, e l’incalzante Postmodernismo – con i suoi concetti di decostruzione e storicismo – ci sembrava una risposta limitata e miope a quanto era avvenuto nel passato. Così ci siamo rivolti agli artisti come modelli di un nuovo modo di pensare l’architettura. Questo cambiamento prese corpo dal fascino che subivamo per la libertà e le possibilità infinite offerte dall’arte.
JR: È strano come tu abbia ritenuto l’architettura così chiusa e l’arte così aperta, dato che i più grandi cambiamenti nei due campi si identificavano a quei tempi con lo stesso termine, Postmodernismo: in architettura voleva dire qualcosa di molto specifico, era cioè una forte reazione estetica al Modernismo, sia attraverso la reintroduzione di riferimenti storici sia attraverso la complessa geometria della decostruzione; nell’arte invece il campo era aperto, qui il Postmodernismo non fu mai monolitico.
JH: È vero. Presto capimmo che quell’approccio senza limiti non esisteva in architettura. Ho sempre creduto – e tuttora credo – che l’architettura debba adottare il modo di lavorare degli artisti, soprattutto di quelli che invece di concentrarsi sulla definizione di un proprio stile personale, operano su concetti.
JR: Al di là dell’arte in generale e del senso di libertà che trasmette, hai citato specificamente artisti come Judd e Beuys: cosa ti ha attratto del loro lavoro, e come lo hai messo in relazione con l’architettura?
JH: Eravamo affascinati dal modo in cui Beuys legava la sua opera alla storia naturale e ai temi sociali e antropologici. Vedevamo un grande potenziale in questo approccio, che era invece trascurato dall’architettura alla fine degli anni Settanta.
JR: È chiaro che la concezione del mondo naturale di Beuys offriva un’alternativa al dibattito sullo stile tra Modernismo e Postmodernismo, ma in che modo questo ha influenzato il tuo approccio alla progettazione?
JH: L’architettura era fondamentalmente insegnata e praticata come una disciplina tecnica ed estetica e, dopo il 1968, come arte sociale, e in essa il concetto di partecipazione era diventato via via sempre più importante. Il lavoro di Beuys costituì un modello con cui combinare e integrare tutte queste istanze all’interno di un’unica realtà complessa. Non eravamo interessati a operazioni settarie, ma ai modi in cui istanze scientifiche e “spirituali” potessero concretizzarsi e diventare “architettura”. Ai tempi dei nostri primi progetti, come la Blue House e la Stone House [1980; 1988], eravamo sempre pieni di dubbi, anche su aspetti banali, su come progettare un muro o una finestra, o su come usare il colore. Ogni progetto era totalmente diverso dagli altri. Non c’erano tracce riconoscibili di uno stile o di una paternità specifica.
JR: Beuys in effetti rappresentava meno un modello di estetica che un’attitudine all’autorialità. Si può dire lo stesso di Judd? Minimalismo è un termine fortemente rimpallato tra arte e architettura, soprattutto perché molti artisti sentono che gli architetti tendono a ridurlo a un concetto puramente estetico; se per gli artisti della generazione di Judd significava spostare l’attenzione dall’oggetto all’esperienza, ripensando il modo in cui la percezione è delimitata dallo spazio e modulata dal movimento al suo interno, per gli architetti degli anni Ottanta e Novanta il Minimalismo è diventato immagine, modo di essere, o persino un marchio o uno slogan.
JH: Sono d’accordo. Il Minimalismo divenne una scuola estetica, soprattutto in Svizzera e in Inghilterra, poi in America e in altri paesi, e molti architetti sono diventati famosi per le loro scatole “minimaliste”. Ci sentivamo responsabili di questa evoluzione, poiché le nostre prime opere furono minimaliste in senso radicale. Forse il Ricola Storage Building [1987] a Laufen è il primo esempio di questo genere di architettura, e in un certo senso lo è nello stile di Judd. Introducemmo il temine Minimalismo per descrivere un nuovo approccio alla struttura e ai materiali, diverso da quello degli architetti di quei tempi perché più vicino ai concetti espressi da artisti come Sol LeWitt, Robert Morris e Judd. I materiali non dovevano essere solo funzionali ma elementi invisibili, di un muro come di un pavimento. Volevamo dare a ogni elemento architettonico una sorta di individualità, un ruolo riconoscibile all’interno dell’insieme. In questo senso i mattoni sono fantastici: un mattone rimane pur sempre un mattone, anche quando diventa parte di un muro e la malta ne tiene insieme una gran quantità. Sul muro esterno della Stone House di Tavole abbiamo persino tentato di sbarazzarci della malta: le pietre sono sovrapposte l’una all’altra e ognuna mantiene la posizione solo grazie al proprio peso. Nel caso del Ricola Storage Building abbiamo voluto dare a ogni elemento dell’edificio una sua indipendenza concependolo e assemblandolo come una sorta di impianto di stoccaggio di elementi architettonici.
JR: Ti riferisci non solo al fatto che l’edificio sia stato concepito come luogo di immagazzimento di merci, ma anche alla costruzione stessa della facciata in cui un sistema di scaffalature supporta i singoli pannelli del muro esterno.
JH: Partimmo da zero, letteralmente, come analfabeti di architettura che non sanno cosa siano un muro, un pavimento o una finestra. Volevamo dare ai materiali più peso, enfatizzando il loro carattere individuale. Guarda per esempio il muro di pietre basaltiche grigie impilate in cassoni d’acciaio della Dominus Winery [1998]: a seconda del lato da cui lo guardi o di quanto sei vicino sembra compatto come cemento o trasparente come merletto. La distanza tra le pietre è importante come le pietre stesse, e quando c’è il sole i vuoti diventano attori dinamici, e appaiono come migliaia di diaframmi fotografici.
JR: Vorrei parlare dei progetti in cui hai combinato immagini e materiali. Nella fabbrica Ricola di Mulhouse-Brunstatt (1993) la fotografia di una pianta è stata serigrafata sui pannelli in policarbonato della facciata.
JH: Lì si trattò di reagire al fatto che il Minimalismo si era ridotto a puro stile. Paradossalmente il Minimalismo ci condusse verso l’ornamentazione, che è il suo opposto, ciò che più fu ritenuto superfluo dagli architetti sin dai tempi di Adolf Loos. Noi provammo a rivelarne il potenziale all’interno dell’architettura contemporanea. In realtà scoprimmo che il concetto di ornamentazione nelle culture del passato non si identificava con decorativismo, ma era un elemento integrante, utile per arrivare alla comprensione della stessa architettura, e allora cominciammo ad imporlo come metodo per testare i nostri progetti. Anche se solo applicata sulla superficie – come nei primi progetti, tipo l’Eberswalde Technical School Library [1999] o appunto l’edificio Ricola – le stampe e i motivi grafici sfidano la concezione strutturale e spaziale dei progetti.
JR: È un geniale, se non illogico, tentativo di applicare la strategia seriale e non gerarchica del Minimalismo alle immagini sulla superficie di un edificio.
È così che hai introdotto l’approccio minimalista all’ornamentazione.
È allora evidente che tradotte nel linguaggio dell’architettura le idee dell’arte possono trasformarsi in modi sorprendenti. Mi domando se la collaborazione diretta tra artisti e architetti sia sempre ugualmente produttiva, o se questi ultimi incoraggino un’impostazione più normativa. Penso al Laban Centre, che hai completato nel 2003, e dove hai lavorato con Michael Craig-Martin sui colori della facciata: senza dubbio si è trattato di una scelta pragmatica, poiché gli architetti sono notoriamente in difficoltà di fronte ai colori, e Craig-Martin è un ottimo colorista; ma in questo modo non si rischia di offrire all’artista l’edificio come fosse una tela, col risultato di rinforzare l’antica divisione tra arte e architettura, superficie e spazio?
JH: Noi abbiamo sperimentato molte differenti forme di collaborazione con gli artisti, perché ci aspettiamo sempre nuovi e inaspettati risultati per entrambi. Il Laban è spazialmente una costruzione complessa, avvolta com’è da una pelle evanescente e traslucida. Con Michael abbiamo lavorato sulla materialità e sui colori di interni ed esterni, così che le nuvole di colore che talvolta appaiono all’esterno riflettono la vivace atmosfera interna. Avremmo potuto fare questo da soli, ma non sarebbe stato lo stesso perché l’uso del colore non è affare da architetti, anche se alcuni fingono di esserne esperti. Lo scambio con Michael ha portato a soluzioni più provocatorie, autentiche e complesse, e il risultato è il lavoro di tre autori indistinguibili. Abbiamo anche collaborato con Thomas Ruff, Andreas Gorsky, Helmut Federle, Adrian Schiess e soprattutto con Remy Zaugg – dagli anni Ottanta fino alla sua morte prematura nel 2005 – e con Ai Weiwei, col quale lavoriamo dal 2002.
Remy è stato più che un artista ed un amico. Abbiamo viaggiato per l’Europa parlando, fumando, mangiando e disegnando molti progetti di architettura e d’arte negli spazi pubblici. Quando abbiamo cominciato a lavorare al progetto generale dell’Università di Bourgogne [1990] ci siamo messi intorno a un tavolo, in maniera semplice, come se fossimo bambini, e il lavoro è andato avanti attraverso discussioni incredibilmente aperte.
La nostra collaborazione con Weiwei ha lo stesso carattere ed intensità. Lo abbiamo incontrato quando era poco conosciuto, in un momento in cui tutti noi avevamo molto tempo a disposizione. Siamo andati insieme in Cina e lì abbiamo intrapreso un dialogo che è ancora in corso. Weiwei è critico nei confronti del proprio paese, ma lo ama profondamente e conosce molto della sua storia e del suo patrimonio culturale. Continuiamo a collaborare su piccoli e grandi progetti; solo alcuni si sono concretizzati, ma il lavoro è sempre intenso e divertente.
JR: Questo ci riporta alla tua originaria interpretazione dell’architettura come un campo intrinsecamente interdisciplinare.
È vero che in un certo senso gli architetti sono gli ultimi generalisti, e che un architetto dovrebbe essere in grado di interfacciarsi con ogni genere di specialista, sia egli artista, imprenditore o ingegnere. Allo stesso tempo, la costruzione di edifici è oggi più complessa a livello tecnico, e gli stessi architetti devono possedere moltissime competenze.
È dunque presumibile che la collaborazione non possa andare avanti in maniera indefinita come un dialogo tra uguali.
JH: Vuoi dire che noi come architetti non possiamo fare arte, e gli artisti non possono fare architettura?
È un pregiudizio, e come tale ingiusto. Abbiamo sempre provato ad abbattere gli steccati tra i nostri ruoli per produrre nuove idee. Prendi per esempio il progetto realizzato con Weiwei per Park Avenue Armory [Hansel & Gretel, 2017]. Era un’installazione artistica, un ibrido tra una scultura pubblica e un’opera. Weiwei, Pierre ed io siamo stati coinvolti con i nostri team dall’inizio alla fine: sarebbe stato assurdo separare il contributo che ognuno stava dando al progetto finale, e nessuno di noi avrebbe potuto portarlo avanti da solo, il risultato sarebbe stato diverso senza questa esperienza condivisa. Non nego che lavorare in questo modo sia più complesso che lavorare in modo individuale ma, per esempio, lo stadio Bird’s Nest [2008] senza Weiwei sarebbe stato differente, anzi forse non sarebbe mai stato costruito.
È comunque vero che il livello di competenze richieste all’architetto è oggi enormemente cresciuto. Quando Pierre ed io lavoriamo a un progetto siamo consapevoli che sarà necessario fare ricorso a molti apporti, dall’interno e dall’esterno del nostro studio.
Collaborazione è la parola che identifica questo approccio che pratichiamo da molti anni. L’esperienza ci ha insegnato che l’arte della collaborazione è trovare un denominatore comune, che non vuol dire compromesso, ma sintesi potente e audace.
JR: Oltre alla competenza tecnica, la politica è un altro punto di potenziale differenza tra arte ed architettura. Hai descritto il tuo iniziale interesse per l’arte come il modo per rifuggire dalle ideologie in architettura, eppure molta dell’arte cui ti sei rivolto è profondamente ideologica. Il lavoro di Beuys, per esempio, è supportato dalle sue convinzioni politiche e si fonda sul suo operare al di fuori delle gerarchie e dall’establishment in cui vive.
È possibile per un architetto tradurre nella pratica questa posizione critica, soprattutto se il suo lavoro riscuote successo e si rivolge a una clientela di alto livello?
JH: L’architettura è come una cava di materiali in cui nei secoli si sono stratificati conflitti politici e psicologici. Gli architetti raramente sono consapevoli di tale profondità quando lavorano a un progetto e molti sono relativamente apolitici, dunque si concentrano solo sulle istanze formali della loro disciplina. Questo ha a che vedere col fatto che spendono soldi altrui. In questo senso, un architetto è un fiduciario per il suo cliente. La relazione è basata sulla fiducia e sul rispetto. Se si hanno riserve politiche o morali è consigliabile respingere qualsiasi progetto che provenga da contesti non democratici o in cui si richieda di sottostare a principi inaccettabili. Questa è la posizione più onesta e credibile che si possa assumere come architetti.
JR: Questioni come potere e critica prendono corpo in maniera molto concreta nell’architettura per le istituzioni artistiche, dove artisti e architetti sembrano avere ambizioni che confliggono tra loro. Come riesci a concepire un’architettura che sia veramente tua e che oltre a garantire agli artisti la libertà di creare permetta ai visitatori ampia possibilità di fruizione?
JH: Non abbiamo problemi a dare all’edificio un suo carattere specifico, il nostro, e allo stesso tempo a conferirgli sufficiente flessibilità e libertà d’uso. Credere che prendere una posizione forte in architettura limiti la libertà degli artisti all’interno del museo è piuttosto un cliché. Per fare un esempio, in passato gli artisti consideravano il Guggenheim di Wright un luogo difficile in cui lavorare, oggi invece lo trovano funzionale, semplicemente perché hanno ampliato i loro repertori. Idealmente un museo puo’ offrire una topografia spaziale diversificata: si dovrebbero offrire spazi che sfidano gli artisti contemporanei a creare nuove e inattese opere; e allo stesso tempo, ci dovrebbero essere gallerie capaci di funzionare bene come sfondo per esposizioni classiche.
JR: Differenziare è importante nel programma di ogni museo, e lo si fa mettendo a disposizione generi diversi di spazio. Ma mi domando se poi la stessa differenza non rischi di diventare generica. Nei musei di arte contemporanea sembra oggi ripetersi una serie fissa di spazi: una grande galleria per le installazioni, una piccola galleria per opere su carta, un auditorium per la danza, una black box per le performance e così via. Come conferisci specificità nel tuo progetto di fronte a tanta standardizzazione?
JH: Non c’è un’unica risposta ideale ai problemi. È interessante installare e sperimentrare la stessa opera d’arte in circostanze diverse. Puoi esporre un dipinto su una parete di cemento grezzo o di pietra, su carta da parati, con luce naturale o artificiale, in una grande galleria o in un vano scala. È importante concepire l’allestimento di opere d’arte all’interno del contesto dell’intero edificio, e considerare come le proporzioni, i materiali, le superfici delle gallerie cambiano mentre le persone si muovono nello spazio. Fare allestimenti è un lavoro molto complesso, ammiro molto chi lo sa fare bene, curatori ed artisti. Mi ha colpito molto l’installazione di Remy delle sculture sottilissime di Giacometti al Museo d’Arte Moderna di Parigi nel 1991: l’installazione era un’opera d’arte per sé senza essere soverchiante né pomposa.
JR: Come riesci a trovare la giusta combinazione tra opera e spazio?
JH: Non è una risposta che posso formulare in maniera astratta… dammi due o tre oggetti, una scultura, un dipinto, un disegno o una fotografia, non devono essere necessariamente opere d’arte; quindi esploriamo l’edificio, che a sua volta non deve essere necessariamente un museo: per ogni oggetto bisogna trovare il luogo ideale all’interno di un determinato spazio. È un esperimento interessante. D’altra parte procediamo sempre in questo modo, spesso inconsciamente, quando posiamo un bicchiere su un tavolo, spostiamo una sedia da un posto all’altro o sistemiamo una tenda.
JR: È questo il modo in cui si articola il progetto per un museo, considerando la collezione e interagendo con i curatori?
JH: Sì. Cerchiamo di essere semplici, dimenticando ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Certo sappiamo come funziona un cubo bianco, o come può essere utile un banale spazio industriale, quanto gioiose possono essere le viste del paesaggio, e come i visitatori possono essere incoraggiati ad entrare in un museo e passarci del tempo anche se non sono particolarmente attratti dall’arte contemporanea. Ma ogni luogo è differente, ogni collezione è differente, i curatori cambiano e propongono altre idee.
JR: E cosa accade nel caso di istituzioni che non hanno una collezione permanente?
JH: Il Pérez Art Museum di Miami non aveva una collezione stabile quando abbiamo intrapreso il progetto, ma c’era un’idea curatoriale di base che ha poi informato il progetto costruttivo, e viceversa. A seguito di intense conversazioni con Terence Riley e gli altri curatori abbiamo sviluppato un concetto basato su anchor rooms, cioè stanze come centri di gravità, intorno alle quali la narrazione viaggia attraverso testo, disegno, stampe, fotografie e materiali diversi. Questo concetto, ancora valido oggi, può essere efficace nel caso di prestiti o nuovi acquisti, e lo è più di una convenzionale disposizione di stanze. In altre parole: le difficoltà che l’istituzione dovette affrontare nell’allestimento del nuovo sito ha portato a una soluzione architettonica e curatoriale molto specifica, che nessun altro museo ha. Il concetto è attraente anche perché le anchor rooms offrono agli artisti l’opportunità di creare in situ. Crediamo che l’edificio, con la sua struttura molto verde all’interno e all’esterno, sia attraente per i visitatori che trascorrono il tempo nei suoi spazi e per gli artisti che questi stessi spazi trasformano.
JR: Arte ed architettura si evolvono sempre più in parallelo. Il tuo progetto per la Tate Modern costituisce un esempio fondamentale di questo passaggio. Era tua intenzione, creando spazi come laTurbine Hall o, più di recente, i Tanks, invitare gli artisti ad esplorare nuove forme di produzione?
JH: Siamo stati felici del successo di questi progetti, perché nessun architetto può sapere se uno spazio poi veramente funzionerà. Tornando alla tua precedente domanda, progettare uno spazio ampio, aperto, informale o flessibile non basta: questi aspetti possono sembrare ben riusciti e il museo essere ancora brutto. Nick Serota è stato un grande direttore, ha inventato il programma e ha collaborato quasi come un architetto col nostro team. Gli artisti sono stati ben contenti di essere coinvolti e hanno portato vita in quello spazio in modi vari e spesso contraddittori: penso a Doris Salcedo e la sua spaccatura del pavimento, che ho amato molto; o all’opera di Rachel Whiteread, che ha quasi occupato l’intero spazio, e Bruce Nauman, o Olafur Eliasson.. ogni intervento è risultato così diverso dal resto. Questo ha reso la Turbine Hall èun luogo dove i visitatori vogliono tornare e dove gli artisti desiderano dare un contribuito.
JR: Nonostante questo, non pensi ci siano lati oscuri nella popolarità di luoghi come Turbine Hall? Tate Modern ha completamente trasformato la South Bank di Londra. I progetti culturali e i musei in particolare sembrano svolgere un ruolo sempre più importante nello sviluppo urbano, al punto che sono stati quasi completamente cooptati dai costruttori. Il tuo studio è stato coinvolto in questo fenomeno: stai lavorando a un grande progetto per Los Angeles, il cosiddetto “distretto delle arti”, che include gallerie d’arte e abitazioni di lusso. E a New York stai trasformando il Batcave, un vecchio capannone di Gowanus che fu un famoso quartiere di artisti, in laboratori di manifattura; questo progetto è stato condannato come l’ultimo stadio del processo di trasformazione di Brooklyn in un quartiere gentry [della piccola nobiltà cittadina, N.d.T.]. Come preservi la tua reale e concreta cultura producendo spazi pubblici praticabili di fronte a forze che spingono verso questo tipo di sviluppo? Il problema sembra particolarmente spinoso oggi, poiché non credo che l’arte possa offrire un modello alternativo da questo punto di vista. Abbiamo cominciato questa conversazione parlando dell’arte come portatrice di libertà, di un modo di pensare fuori dai sistemi nei quali l’architettura è ingabbiata. Ma l’arte oggi è più che mai legata al mercato. Non credo che gli architetti possano ancora guardare all’arte come un modello di critica o di contenuti.
JH: Un’opera d’arte può ancora essere di ispirazione per chiunque voglia ammirarla. Ma certamente l’arte è diventata più un modello di mercato che di critica. In un certo senso, arte e architettura rispecchiano la società attuale. Così come si va riducendo la classe media dei cittadini, la stessa classe media costituita da artisti e gallerie si riduce, e eventualmente sparirà. Un piccolo numero di gallerie importanti controlla il mercato in America, Europa ed Asia. In architettura, i costruttori dominano il sistema immobiliare e continuano a progettare le nostre città con una logica che segue strettamente le regole del mercato. Come architetto puoi odiare tutto questo, ma puoi anche ripensare al tuo ruolo di individuo che progetta e influenza il progetto a livello programmatico. Sempre più i costruttori diventano consapevoli che un’architettura iconica non è abbastanza: gli edifici devono radicarsi nella città, devono attrarre gruppi sociali differenti e offrire diverse possibilità. Non tutte le torri possono contenere spazi pubblici come Turbine Hall, ma comunque tutti gli edifici commerciali necessiteranno di spazi liberi e informali. L’alternativa sono le torri di vetro, vuote e spaventose, che circondano la stessa Tate.
JR: È impossibile immaginare la Turbine Hall vuota. In un certo senso, c’è maggiore interesse per questi luoghi partecipati che per ogni altro tipo di architettura museale, perché in assenza di coinvolgimento del pubblico lo spazio non sopravvive. Forse in questo nuovo mondo di eroi la cosa più importante che gli architetti possono fare è rifiutare di progettare oltre un certo limite, per evitare “l’iperspecificità” e per favorire l’inaspettato, il cambiamento e l’interpretazione.
JH: L’architettura è una pratica molto arcaica: la puoi vedere, annusare, toccare, ascoltare, è come la natura. Ha un lato sensuale e ti incoraggia a pensare. Arte e architettura sono strumenti per la percezione e la riflessione, sono capaci di far scaturire una creativa e forse erotica energia in chi vede e utilizza i loro prodotti. È un’energia incredibilmente potente, che va al di là di ogni attitudine moralistica o inclinazione stilistica. Non credo che questo potrà mai cambiare, nemmeno in questo momento di transizione verso più alti livelli di mercificazione.
Articolo originale pubblicato su marzo 2018 pagine 194-201, traduzione di Cristina Rosati
© Artforum, March 2018, “Significant Difference: Jacques Herzog talks with Julian Rose”.