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“De domo sua” – Il sistema che vincola e il direttore che attua (I parte)

Spesso capita che le domande più ingenue siano anche quelle destinate a rimanere senza responso, o a provocare risposte terribilmente complesse. È inevitabile: le domande «apparentemente semplici» ma «vincolate ad un pretesto» sono anche quelle più ambigue e fastidiose, quelle che spingono gli interpreti alla radice prima delle cose; quelle che, da un lato appaiono come le più sincere e schiette (di una classe sociale) e dall’altra stupiscono come il vangelo, che va forzosamente ai principi originari; quelle che “tentano di esser tali”, perché si pongono “questioni strumentali”, “a/storiche”, nel senso che sono solo lo specchio della propria confusione, e ancor di più si impongono, si auto-battezzano e si pre-giudicano. Così, anche il quesito del Direttore artistico della Quadriennale di Roma ha sollecitato risposte assai provocatorie e di poca sostanza, titoli e sottotitoli di una storia assai amara, vissuta malissimo da tutti quelli che dall’industria culturale italiana, hanno massacrato ogni possibilità di affermazione o esposizione della più avanzata ricerca artistica.

L’incertezza del sistema artistico italiano come certezza della condizione strumentale, spesso opprime gli utenti fino al punto da togliergli il respiro e lasciarli impossibilitati ad agire, ma a ben vedere costituisce il motore delle loro stesse vite. La cosa più preziosa dell’arte è la sua “schietta incertezza”. «L’economia politica dell’arte» fu una delle prime a definire la differenza tra rischio e incertezza: l’incertezza è “soggettiva”, mentre il rischio è “oggettivo” e può essere calcolato. Introducendo il concetto di rischio, e associandolo a una probabilità calcolabile, Ruskin rese possibile una “assicurazione” contro il verificarsi di quella condizione. L’impatto dei mass media e dei socialmedia nell’influenzare la percezione del rischio di insuccesso nell’arte contemporanea è enorme, dato che spesso le informazioni che entrano a far parte dell’agenda dei media sono influenzate e distorte da delegati esterni, che modificano i dati o corrompono politici e giornalisti, o alterano il pranzo di Babette. L’illusione di aver capito il passato artistico alimenta l’ulteriore illusione di poter prevedere e controllare il futuro. Questi abbagli sono confortanti soprattutto se sono retti, come è nel caso di Gian Maria Tosatti, da élite politiche e mercantili, che offrono certezza e sicurezza per la propria affermazione. Riducono l’ansia, che prova un sistema artistico intero, nel momento in cui danno la possibilità ad una sola mina vagante, come Tosatti, di riconoscere in pieno le certezze e le incertezze della propria e dell’altrui classe sociale. Ma accontentarsi di una spiegazione, dimenticare il nostro isolamento forzato, o far agire l’opinione di Tosatti come se fosse un metro è l’ostacolo principale alla conoscenza e all’affermazione delle dinamiche sociali di alcuni o di tanti.

Se l’artista non svanisse mai, ma durasse sempre in questo mondo, quante cose perderebbero il potere di appassionarci? Le intenzioni artistiche arbitrarie sono imposizioni che orientano le scelte di una piccolissima élite e, in più, contengono la consapevolezza dell’incertezza, delle sorprese e delle novità che possiamo incontrare nel percorso per realizzarle. In quel percorso, “arbitri, padroni, regolatori allucinati” (come Tosatti) potrebbero anche rendersi conto che le nostre intenzioni vanno decisamente ridimensionate, o che sfumano in una direzione diversa. La condizione dell’arte moderna è caratterizzata da elevati livelli di incertezza (nella società, nella scienza, nella cultura, ecc) che prima non venivano percepiti come tali. L’epidemia del “potere estetico privatistico e familistico italiano” ha recentemente reso consapevole il mondo intero della condizione «d’incertezza» nella quale l’artisticità si muove, ma ha anche evidenziato la forza della strategia artistica elitaria, che ha realizzato delle politiche utilitaristiche in un tempo infinitamente inferiore a quelle del passato. Viviamo un’arte incerta, in una società incerta, dominata da una modernità elitaria dubbia in cui l’artista, che da produttore è diventato “falso regista”, “interprete arrogante”, professore dei Social Network, gallerista, esperto di saggistica, pubblicista, consumatore e quant’altro, istituzionalmente, professa il regime Tosatti, cerca di sfuggire al rischio di esclusione che la nuova condizione comporta e quindi impiegando tutto il suo potere strategico esige, insieme alla sua classe sociale, di essere il Primo. L’orazione di regime, che l’artistar ha la possibilità di scrivere con l’aiuto dei giornali di potere, è registrata col titolo “de domo sua” (= per la propria casa). “De domo sua” (o “pro domo sua”) è divenuto il motto, l’emblema, la bandiera di chi nei processi alla storia e alla critica d’arte, nelle controversie, nelle discussioni – forse soprattutto nella politica dell’arte – parla esclusivamente per i suoi personali interessi.

Cosa intendiamo oggi per artista, è già in sé domanda anacronistica. Chi riesce a dire una verità certa? Chi riesce a dirne i presupposti indiscussi, in modo tale che questa “prestazione inconsistente”, come la esercita Tosatti, si collochi tra il cielo e la terra, tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti? E chi scelga di dire la verità anche contro sé stesso o i propri interessi personali o di casta? Un sedicente artista e un forzato performer come Tosatti? Oggi un artista onesto è persona rara, anzi forse Dewey e Marcuse, a cui si rifà Tosatti, ci hanno detto che gli artisti non hanno niente a che fare con l’onestà, perché la storia annienta, sacrifica, confina nei libri “approntati da pochi e per pochi”. Purtroppo Tosatti chiacchiera tanto di cinema e arti visive, ma non si è mai abbassato, a studiare le parole di Derek Jarman: «Il nostro nome sarà dimenticato. Col tempo nessuno si ricorderà della nostra opera. La nostra vita passerà come le tracce di una nuvola. Per essere dispersa come nebbia che viene inseguita dai raggi del sole. Perché il nostro tempo è il passaggio di un’ombra. E le nostre vite scorreranno così: scintille fra le stoppie».

Tosatti, in un articolo da bilancio Storico-Critico, nel titolo e nel sottotitolo recita: “Come siamo silenziosi sullo stato dell’arte. Fare & Criticare. In Italia ci sono centinaia di artisti, ma manca una pubblicistica di peso: non esiste ancora una storia dell’arte dal Duemila a oggi (ndr.: ammesso che la cronologia faccia ancora colpo e sia ancora certa …). Nello stesso periodo del Novecento si produsse una letteratura infinita” (vedi Il Sole 24 Ore, dom. 3 sett. 2023, n. 242). Viene il sospetto che si cominci ad essere stanchi di “finte verità”, di libertà “pro domo sua”, anche di apparente democrazia alla Dewey, perché questi “ipocriti e forzati miti” provenienti dal fondo dell’elite (a cui vorrebbe appartenere Tosatti, ma anche in quello fa acqua da tutte le parti) ci hanno comunque deluso, diviso, e spesso lo hanno fatto con dorate parole, quelle di cosiddetti pseudo-intrattenitori spacciati per performer, gli epigoni dei quali ora spesso tacciono, a loro volta ammutoliti dal disgusto o dallo zelo verso un centro di potere. Ma alcuni, i più controversi e irriducibili, oggi sono sepolti da una storia dell’arte figlia del sessantottismo già occulto, nascosto, assassino, imbroglione, narcisistico, o azzerato. Vittima di questa condizione anche il tanto evocato Pasolini, mai come in questi tempi citato sui giornali e sul web, assurto a simbolo d’intellettuale scomodo, martire di una battaglia mai vinta, impropriamente utilizzato come difensore di sedicenti “politici elitari”, come lo stesso Tosatti mostra di essere. 

Siamo ormai lontani dagli anni in cui la società proseguiva il suo percorso verso quella che negli anni ‘60 era considerata la cultura dell’artista delle neo-avanguardie, alla Marcel Broodthaers.

Se fino al tardo ‘900 compito primario della ricerca artistica era quello di indurre l’operatore estetico ad accettare la propria condizione sociale, se in quella società rigidamente piramidale si condannano le aspirazioni che non rispettano l’ordine gerarchico e si addebita ogni insuccesso personale all’eccesso di presunzione che riproducono “inadeguate aspirazioni” (come le chiamava la pedagogia storica tedesca: verfehltes streben), nei primi decenni del nostro secolo qualcosa comincia a cambiare. Non senza contraddizioni, ma in modo via viasempre più incontestabile, una élite manageriale di artisti-burocrati tenace ed arrivista (che in questo caso si presenta sotto il cloud politico di Gian Maria Tosatti) rivendica la gestione del “potere, della creatività e della critica” e neanche, solo, per “cogestirla” o “congestionarla”: si impongono così, a poco a poco, sulle corti del suo stesso rumore dei vincoli principeschi! Il serbo di quel comando è costruito da ceti teatral-mercantili, naturalmente, portati a essere fautori di tolleranza e di apertura nei confronti di quel solo mondo conveniente, quel mondo che attraverso le parole di Tosatti si sente autorizzato a rimproverare (alla qualsiasi) la “disabitudine italiana al confronto critico” e dettare la Direzione Artistica dell’Annuario d’Arte Italiana del 2022!”. 

La politica del sistema artistico globale esiste in quanto luogo delle relazioni fra più attori sociali, intorno a temi che interessano la comunità di cui essi fanno parte. Il potere politico del sistema dell’arte è esercitato da chi, attraverso strumenti che possono essere assai differenti, riesce ad imporre all’intera comunità valori, istituzioni e regole che sono espressione – per una parte negoziata, ma in larga parte no – degli interessi prevalenti del soggetto che detiene il potere direttivo. Questo soggetto, del tutto arbitrariamente, formatosi su una legittimità privata e scandita a suon di Gallerie d’Arte (perché sono queste ultime che dalla seconda metà del ‘900 hanno formato il sistema dell’arte) opera nell’ambivalenza di voler essere estensore e difensore delle regole, ma nel contempo “destinatario” del diritto/dovere di cambiare le regole: in età post-moderna la mutazione delle regole è stata sostituita dall’affermazione dei capi banda dell’industria culturale. La partecipazione politica al sistema dell’arte contemporanea accomuna, a differenti livelli di intensità, tutti coloro che prendono parte a questo sistema di relazioni. L’area di soggetti che consapevolmente intende coinvolgersi in questa trama di relazioni, vista la caduta del sistema galleristico globale e vista la trasformazione del sistema mediale, di cui l’arte è totalmente vittima, appare oggi in progressivo restringimento e questo porta, ormai da tempo, a parlare di crisi della politica dell’arte come crisi dell’arte.

I toni con cui si enfatizza questa crisi sono costretti ad apparire eccessivamente semplificatori, deresponsabilizzanti e riduttivi della complessità delle trasformazioni sociali ed economiche e delle ripercussioni che esse hanno sul sistema di relazioni più propriamente politiche, perché l’operato dell’opportunista e elitario alla Tosatti possa gestire meglio il proprio tornaconto. Pare, a volte, che quelli come Tosatti guardino al sistema politico dell’arte con uno strabismo che impedisce di focalizzare l’oggetto: o rivolti ad un modello passato che non esiste più, ma che rimane come linguaggio e paradigma del cosa sia la politica, oppure proiettati in un futuro in cui sembra che la storia parta dall’oggi, parta, precisamente dal tempo in cui egli stesso suggerisce l’esigenza di scriverla e di approfondirla. Se può esser vero che sempre meno la storia dell’arte è maestra di vita e soprattutto di linguaggio, in una fase in cui tutto cambia rapidamente e spesso radicalmente, è anche vero che l’azione politica di pretenziosi accentratori, come Tosatti, si impone sulla storia di artisti, scrittori e gruppi sociali e si adegua, nel tempo e nello spazio, a valori, interessi e domande che derivano dagli ingranaggi della società elitaria e autocratica nel suo complesso. La rilevanza che il sistema artistico-galleristico ha avuto nella storia dell’Italia, sovrapponendosi e guidando per un certo periodo anche il sistema culturale ed economico, ci portano oggi a parlare di «crisi della storia dell’arte e della critica», ingigantendone forse la portata e, comunque, riferendosi a questa crisi come se sorgesse inaspettata. Come se fosse l’esito di cortocircuiti interni al sistema e osservata per contro da sistemi che marciano spediti verso la realizzazione della promessa ottimista della modernità anarchica e liberista: l’arte di oggi è meglio di ieri e domani sarà sempre meglio di oggi: è questo il mood che i raccomandati del Capitolo Storico Centralistico ci fanno credere.

La partecipazione negli affari pubblici dell’arte è esito della relazione fra soggetti artistici di classi sociali diverse, ma spesso si guarda ad essa come se l’areopago non fosse stato sostituito dai centri commerciali, come se l’Italia di oggi fosse o potesse ancora essere l’Italia dell’emulazione di Marcel Broodthaers o di Yves Klein: una società largamente tradizionale che trasferiva nel campo politico le credenze (religiose e civili) sperimentate nelle reti di relazioni artistiche, sufficientemente convinta della visibilità e realizzabilità di un progetto culturale e solidaristicamente militante attorno all’obiettivo dell’emulazione esterofila.

Se all’incirca fra la fine degli anni Cinquanta ed il decennio successivo il volto dell’Italia cambia radicalmente, passando dai connotati di una tradizionale società contadina ad una moderna società industriale, sul finire degli anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta esplodono le contraddizioni del sistema artistico su cui si era fondata l’Italia dei Metafisici e dei Futuristi. Fino agli anni ’90 non ci sono le condizioni politiche, concettuali e artistiche, perché i grandi cambiamenti sociali dei decenni precedenti possano dispiegare i loro effetti. In altre parole, la modernizzazione sociale è condizione necessaria ma non sufficiente per il cambiamento. E in questa incertezza, in maniera faticosa, si affaccia un campo comunicativo globale e sembra quasi che l’Italia accetti una condizione inesorabile, provocata da altri luoghi e da altre economie che muovono l’industria culturale. Accanto all’attenzione sulla natura  mediale della composizione artistica, sviluppata in particolare dal Medialismo, prende avvio lo scenario internet che porta i linguaggi artistici definitivamente nell’altrove, per usare un’affermazione di Slavoj Zizek nel Grande Altro. Senza il catalizzatore degli eventi esterni – nazionali e internazionali – e dell’azione di attori politici, nuovi o rinnovati, i mutamenti sociali ed estetici degli anni ’70 e ’80 avrebbero impresso al rapporto cittadini-politica-territorialità artistica un carattere alquanto diverso, probabilmente in direzione di un accentuato distacco e di una maggiore apatia nei confronti della sfera politico-concettuale-minimalista imposta dal mercato globale. Già nella seconda metà degli anni Sessanta del trascorso secolo, si evidenzia l’inadeguatezza dei rigagnoli delle “ultime tendenze dell’arte d’oggi”, su cui si è fondato il turismo blockbuster, e dell’esposizionismo familistico ed esterofilo rispetto alla loro capacità di lettura e rappresentanza dei bisogni estetici ed artistici: «quando un sistema d’arte diventa più complesso (e questo cercammo di sottolineare con il Convegno di Milano del 1987 su Il Nuovo sistema dell’arte) non può più orientarsi su principi generali, o su disegni da realizzare in un futuro lontano, ma deve fornirsi di capacità di riflessione sul come eventi, happening, performance, processi mediali specifici, non previsti nei grandi disegni, debbano essere interpretati e collocati nella concezione generale della pratica storico-critica, anche con possibili effetti di modifica parziale di questi ultimi». Nella realtà, a partire da quegli anni, si è potuto osservare come i grandi valori e le “critiche all’ideologia”, su cui si fondavano i gruppi artistici che concorrevano per l’attribuzione del riconoscimento estetico, diventavano di fatto scarsamente incidenti nell’orientare l’agire collettivo dei gruppi ed il comportamento di coloro che pure vi aderivano.

Il cosiddetto mercato dei valori artistici, che comincia a profilarsi dalla seconda metà degli anni Sessanta, evidenzia dei mix valoriali nei quali risultano ormai allentati i precedenti vincoli d’appartenenza subculturali. Si chiude così una stagione estetico-politica e se ne apre un’altra, in cui ciascuno, liberato da pregiudizi di fedeltà modernista, si dedica in modo autonomo a combinare il «carrello» di valori che, in quel momento, più gli aggrada. I circuiti di solidarietà e di fiducia si fanno sempre più mutevoli e particolari: «Accanto alla secolarizzazione delle scuderie d’arte (tramite il sistema galleristico privato), che favorisce la disgregazione della subcultura attaccata ai territori, e alla de-ideologizzazione della politica culturale, che a sua volta minaccia la subcultura “delle città senza confine e dell’esternalizzazione muralistica dell’arte (altra cosa dal writerismo d’oltralpe)”, la riduzione del grado di polarizzazione del conflitto indebolisce tutti i criteri di appartenenza e sistematicamente corrompe qualsiasi possibilità di Manifesto Estetico o di Gruppo di Pressione Artistica». Di più, il concetto di «affinità estetica» sembra adeguato a sgombrare il campo dagli effetti burocratizzanti di natura sia tecnocratica che autoritaria, aprendo ad una concezione personalistica del corporativismo. Il tutto avviene a sfavore di ogni esposizione emergente e a favore di una disposizione familistico-relazionale, propria di una forma di corporativismo dove i «corpi» individuali e collettivi diventano soggetti portatori di aggregazione di potere e di pensiero unico (come quello supposto e percorso da Tosatti). Il difetto attuale di questo strategismo può essere spiegato come sottrazione sistematica di efficaci rapporti tra le ricerche artistiche e politiche. In tali condizioni si trasformano di conseguenza anche i meccanismi della partecipazione politica alle Istituzioni della Biennale, della Triennale e della Quadriennale, in un quadro in cui la frammentazione sociale ed estetica tende a tradursi in frammentazione dell’esperienza politica. La specie degli egotismi-dinosauro si sta trasformando perché è calato il gelo sull’ambiente che li aveva visti nascere: quello degli infuocati scontri critici e sociali che hanno scandito – e insanguinato – la prima metà del secolo scorso. Come è stato osservato, la partecipazione si esprime con fattezze anomiche, in sostanza perde il formato e i contenuti dell’azione espositiva locale o privato-pubblica e si trasforma, progressivamente, in attività frammentaria ed intermittente di pressione politica (sia pur mantenendo il significato suo proprio di attività comunque orientata alla ridistribuzione di risorse di potere per il governo della storia dell’arte e della storia delle curatele). Ciò non significa che non esista più conflitto, ma che le tradizionali linee di frattura sono venute ad intersecarsi fra loro, e che si sono rimescolati interessi e bisogni in una quantità di lotte intestine e situazioni di conflitto generazionale, nelle quali cioè il narciso di turno può scindersi in una delle sue tante dimensioni di ruolo e di volta in volta potrebbe ritrovarsi dall’una o dall’altra parte della transenna espositiva. È un cambiamento culturale di vasta portata, le cui caratteristiche sfuggono ai tradizionali strumenti analitici adottati in precedenza dagli storici dell’arte e dai curatori, per leggere le battaglie di potere, le performance politiche al posto delle opere e l’intensità del mutamento storico-artistico.

About The Author

Roberto Sala

Art director della rivista Segno insegna Grafica editoriale all'Accademia di Belle Arti di Brera