Una mostra-accumulo, incentrata su un’unica parete sulla quale sono collassate – senza rispettare alcuna distanza minima di sicurezza – decine e decine di tele di piccole e medie dimensioni. L’assembramento, certamente una sediziosa adunata di fumosi perdenti senza storia, fa pensare a una di quelle isole impossibili che si formano nel nulla di un oceano dall’incontro casuale di oggetti dispersi, imballi plastici, bottiglie vuote, gusci di consumi umani che nessuno si è preoccupato di smaltire in modo adeguato, affidando i rifiuti alla pazienza rassegnata del mare. Un senso di deriva e di desolazione, di umanità scaduta o giunta quasi al limite del consumabile, del consumato, annichilita eppure in qualche modo gaudente, pervade l’intera mostra personale di Dario Carratta allestita negli spazi della Galleria Richter di Roma, intitolata “Sniff my leather jacket” e visitabile dal 20 giugno al 22 settembre.
L’immaginario del pittore salentino Dario Carratta, che da molti anni vive e lavora a Roma, si nutre di fantascienza e barocco, di B-movie e anonime immagini scaricate da internet, di leggende metropolitane e remix artistici, di nuove religioni, di estetica orrorifica, di promesse pubblicitarie, di eccitazioni da fast food. Ci conduce in regioni deserte al confine tra città e campagna in cui si celebrano incongrui riti di propiziazione o iniziazione, lungo strade notturne sotto le cui insegne fioche sbandano e caracollano automobili sgomente, dentro camerette di case di studenti o liquidi schermi televisivi. Stretti primi piani ingigantiscono oggetti che sembrano sfregiati da ghigni antropomorfi o, forse, i fantasmi che si affacciano sulla suferficie della pittura di Carratta sono proprio esseri umani che si lasciano distorcere da pennellate espressioniste fino a stravolgere la loro qualità umana in una cosalità sgranata, ruvida, grinzosa. Lampi lividi e lucori alieni baluginano minacciosi su volti e corpi sfilacciati, intorno ai quali il contesto è quasi sparito e resta solo l’alone di una sessualità esangue ed estenuata, che disfa le carni come stoffe. Una quotidianità sospesa viene così squarciata o esorcizzata dall’apparizione di angeli folli o da rapimenti extraterrestri, estasi senza santità e senza peccato che si accendono nell’esercizio di una ritrattistica distorta, di un’aneddotica sempre incompleta e senza finale. La galleria delle figure dipinte da Carratta attinge a un underground romano che nelle sue pieghe di dissonanza potrebbe assomigliare a qualunque altro non-luogo, forse aggiungendo al déjà-vu soltanto una stilla di mistero o un’eco in più.
Con la leggerezza degli epigoni e con l’incoscienza dei barbari, Dario Carratta pratica una pittura di gusto internazionale con un proprio accento visionario, globalizzato quanto basta da farsi ammirare nella sua imprecisione.
In aggiunta alla baraonda pittorica, al piano inferiore della galleria un’installazione pone al centro dello spazio un manichino ligneo a grandezza naturale, un Pinocchio dai lineamenti alterati o forse un alter-ego dell’artista stesso che, nudo a eccezione di un paio di scarpe da ginnastica nuove ai piedi, sta seduto su uno zerbino, imbambolato nella contemplazione di una pessima stampa da arredo con una spiaggia kitsch, resa ancora più irreale dalla luce fredda dei neon che la circondano. Cartolina impietosa della vacanza che siamo, nella nostra cattività disadorna: chiave di lettura della pittura stessa dell’artista che, forse, getta l’amo di una speranza a chi riesce a cogliere il rumore di fondo prodotto dall’assonanza tra distrazione e distruzione.