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DALL’ESISTENTE ALL’IMMANENTE – Elisa Leonini

A Villa Contemporanea di Monza è in corso “Landtrack”, la personale di Elisa Leonini (Ferrara, 1980) selezionata dalla galleria nel contesto del IV Premio Ora.

DALL’ESISTENTE ALL’IMMANENTE è il testo di Alberto Zanchetta che analizza la poetica della giovane Leonini.

Nel corso dei secoli l’Homo sapiens ha sviluppato maggiormente il senso della vista, trascurando invece l’olfatto e l’udito (che non sono stati “allenati” a sufficienza). Spesso però dimentichiamo che tutti i nostri sensi sono passibili di “miraggi”, e quelli più frequenti sono da imputarsi non solo all’ottica ma pure all’acustica. E poiché l’arte è propensa agli “inganni”, anche le opere di Elisa Leonini ci offrono un’ambiguità che scaturisce dal cortocircuito suono/immagine. Le fotografie in b/n, che l’artista sottopone alla nostra attenzione, ci proiettano in lande desertiche e territori siderali, ma quelli che di primo acchito possono sembrare campi arati o vertiginosi dirupi, in realtà sono le incisioni praticate su frammenti di vinile o bachelite. I titoli delle immagini richiamano infatti i parametri di ingrandimento riportati dai laboratori del Dipartimento di microscopia elettronica dell’Università di Ferrara, con cui Leonini ha collaborato per convertire le “tracce audio” in “paesaggi” (landtracks). L’artista punta così lo sguardo su un micro-mondo che lo spettatore recepisce a guisa di macro-paesaggio.

Il nostro rapporto con il supporto fonografico è equiparabile a un déjà-vu, a qualcosa che si conosce, che si è “già visto”, ma che può (ancora, e sempre) essere osservato meglio. Le incisioni meccaniche, percepite in modo sommario dall’occhio umano, se sottoposte a ingrandimento ci sembrano improvvisamente e sorprendentemente “naturali”, tanto da riuscire a entrare nei solchi di questi dischi; viene quasi voglia di perdersi in queste lande desolate, però non così silenti come potrebbero sembrare in apparenza. È necessario ascoltare le tracce audio nelle cuffie che penzolano dal soffitto per riuscire a mettere in relazione i particolari paesaggistici di fronte ai nostri occhi. Il suono che esce dalle cuffie non spiega l’immagine, non intende neppure conferirle significato, serve bensì a “contestualizzarla”. Il suono – come fosse un nome proprio – dichiara la sua identità, oltre che il luogo della propria genesi.

Diverso è il caso della seconda sala della galleria, dove una proiezione a muro ci mostra un ipertrofico granello di polvere (elemento che altera il suono emesso dall’incontro tra un LP e la puntina del giradischi) che dialoga con l’opera – anch’essa “fuori scala” – ospitata all’interno dell’esposizione: la scultura sonora 1:10.000 di Michele Spanghero, sound artist che si è sempre impegnato nel dare forma e sostanza all’impalpabile. L’involucro contiene una risonanza che è 10.000 volte più grande della piccola tanica metallica di fronte a noi, proporzione che dev’essere messa in relazione all’acustica di una cisterna petrolifera vuota. Uno spazio contratto e un suono dilatato… a ribadire gli infingimenti di cui soltanto l’arte (come la magia) ci rende attoniti testimoni.

La ricerca di Elisa Leonini, in accordo con quella di Michele Spanghero, si districa tra gli inganni che intercorrono tra il nervo ottico e il condotto auricolare. Le opere qui esposte invitano lo spettatore a un esercizio di concentrazione – oltre che di contemplazione – nient’affatto scontato, tanto meno immediato. Se Leonini rimodella il suono affinché aderisca a una dimensione spaziale e temporale del tutto nuova, Spanghero dà forma e sostanza a una “risonanza” concettuale. Entrambi gli artisti distorcono le proporzioni, quindi anche le nostre percezioni, obbligandoci a passare dall’esistente all’immanente.

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