Gabriele Mina è un antropologo italiano. La sua ricerca si sviluppa attorno al sorprendente mondo degli architetti outsider, irregolari, o come li chiami lui: i babelici. Il suo è un lavoro certosino che unisce documentazione e catalogazione alla divulgazione attiva, in una pratica radicata e diffusa di progetti e collaborazioni. L’abbiamo intervistato in occasione del lancio del nuovo sito di Costruttori di Babele: ottanta schede monografiche, foto, video, testimonianze, divise per regione, una piattaforma ricca di informazioni su questo mondo affascinante. Insieme a Mina anche Cristina Crippi che del sito ha curato il design di questo archivio digitale tutto da scoprire.
Mosè Previti Costruttori di Babele è un «catalogo di autodidatti e irregolari, architetti dell’utopia, ispirati al bordo della strada, abitanti-paesaggisti anarchici e visionari». Un catalogo che è fatto dei tuoi personali incontri e del tuo movimento fisico, reale, per le regioni del nostro Paese. Come hai iniziato e da dove sei partito nella tua ricerca?
Gabriele Mina Il progetto di ricerca inizia una dozzina di anni fa: nasce dall’interesse di esplorare espressioni creative al margine della strada. Mi andavo convincendo che i mille paesini della provincia potessero offrire qualcosa di differente, di «altro» rispetto alla riproposizione dei modelli tradizionali. Non maschere, bastoni, ex voto e il noto patrimonio folklorico, ma case fantasiose, mitologie personali, invenzioni meccaniche. L’idea di una cultura artistica che si relaziona con i modelli e con il territorio in modi originali. La scelta di delimitare l’indagine all’Italia è stata dettata dalla possibilità, per quanto possibile, di muoversi sul campo, in dialogo con i babelici e le persone che li circondano. Un primo incontro decisivo è stato con Mario Andreoli, che da più di cinquant’anni ha trasformato la sua collina di Manarola, nelle Cinque Terre, in un enorme presepe luminoso, realizzato con materiali di recupero. La sua costanza e il suo rapporto con il paesaggio hanno contribuito molto alla lettura babelica.
M.P. I costruttori di Babele sono un fenomeno specifico della nostra epoca e della nostra cultura, oppure esistono tracce di questi artisti anche in altri momenti della storia?
G.M. Alcuni studiosi francesi e americani di queste architetture di autodidatti tendono a sottolineare una matrice novecentesca. Oscuri operai che, una volta lasciata alla spalle la produzione in serie, danno vita, nel proprio giardino, a singolari installazioni con ferri, plastica, scarti. È pur vero che la nostra è l’età del bricolage e del tempo libero. Tuttavia io ritengo che il rapporto con la casa e con i materiali (pietre, legni) abbia aperto nei secoli l’opportunità di inventare un “egomuseo”, un santuario, un sogno. Non sorprende affatto che non siano rimaste tracce fisiche degli antichi siti babelici: le case si smontano, i materiali si riutilizzano, le strutture fragili non superano le generazioni. E il fatto che non vi sia apparente traccia nella storia dell’arte ufficiale è legata all’inesorabile selezione dello sguardo: su questo restano memorabili le pagine de L’antirinascimento di Eugenio Battisti.
M.P. C’è naturalmente nelle definizioni un limite dettato dal nostro sguardo sul fenomeno artistico, secondo le categorie degli studi specifici su questo campo. Ma come funziona e cosa intercetta lo sguardo dell’antropologo?
G.M. Quello dell’artista isolato, outsider privo di riferimenti culturali e unicamente legato a un interiore sorgente visionaria, è un mito da decostruire, almeno nell’ambito dei creatori babelici. Per un antropologo è un operazione più semplice. A me non interessa la presunta genuinità dell’espressione o primitivismi vari, mi interessa il loro essere insider, la loro capacità di leggere un territorio attraversandolo, recuperando segni e mitologie nascoste, operando con la materia. Babele è anche la storia di mogli e famiglie complici o a disagio, di vicini, di amici e passanti, di comunità: sono invenzioni private, spesso sono giochi e passioni fin troppo accese, ma nel momento in cui vengono poste al bordo della strada, agiscono pubblicamente. Mettono in moto meccanismi, reazioni antropologiche, innanzitutto il sorriso. Non è raro trovare in questi ottantenni – già ferrovieri, muratori, contadini – una passione per la storia antica, per i reperti, per il paesaggio che li circonda e nel quale vanno a cercare il materiale occorrente. Quindi, sono solito dire, ho trovato dei colleghi.
M.P. Cristina Crippi è la visual designer che ha disegnato la nuova veste grafica del sito www.costruttoridibabele.net Quali elementi hai considerato per realizzare questo progetto?
Cristina Crippi Costruttori di Babele è un archivio. Ma non solo di dati, luoghi, informazioni: è un diario di esperienze, una raccolta di sorrisi, porte aperte e ospitalità nei giardini, cortili e luoghi delle costruzioni immaginifiche. Raccoglie il tempo prezioso donato dai costruttori per i loro racconti e quello investito da Gabriele per collezionarli tutti, ascoltare le loro voci, fotografare, trovare le parole e le informazioni per raccontare, custodire, aggiornare negli anni questa colorata banca dati. Quando ho iniziato a progettare il sito ho pensato a questo. Desideravo che fosse un archivio «parlante», che rendesse più possibile visibili le immagini, che potesse incuriosire mostrando texturee materiali. La torre di Babele parla attraverso la voce dell’antropologo, l’archivio web ha cercato di fargli eco con un design fresco, menù che mostrano immagini per ogni regione, un video copertina nella home page per chiamare dentro questo mondo con il movimento dei gesti del fare…
M.P. Quali scelte hai operato rispetto a una documentazione fotografica così ampia?
C.C. L’archivio fotografico di partenza fornito per la realizzazione del sito era molto vasto: fotografie realizzate in un decennio da autori differenti, tutte di qualità e formati diversi. Con Gabriele abbiamo concordato la scelta editoriale di mostrare l’essenziale, lasciando margine di scoperta agli esploratori sul campo. Una gallery nelle pagine monografiche raccoglie la creazione, alcuni dettagli, un ritratto dell’artista babelico. La lunga foto panoramica centrale alla pagina mostra il sito per intero, il panorama, appunto, che si presenta camminando verso questi luoghi. Il trattamento editoriale delle foto include anche l’intervento su formati e colori per dare nuovo corpo e lucentezza agli scatti, creando un moodpiù omogeneo per i contenuti visivi del sito, con un leggero effetto vintage. Nelle altre pagine le immagini sono inserti di racconto: l’approccio nella scelta non nasconde la piacevolezza e l’ironia dell’operazione.
M.P. Quali sono i prossimi appuntamenti della tua attività scientifica e divulgativa?
G.M. Da anni porto in giro il «racconto babelico», una narrazione parateatrale dei miei incontri con queste persone e con le loro creazioni. L’ho proposto nei luoghi più disparati, in cambio dell’ospitalità: si tratta di un’esperienza cui sono particolarmente affezionato, perché mi permette di raccontare i babelici con le loro parole, con alcuni loro gesti. Spero di avere nuove occasioni: è un tempo lungo che, in effetti, mima le imprese decennali degl’irriducibili ottantenni. Quanto al sito, compariranno nuove schede monografiche: al momento sono 80, ma in archivio – da verificare, punto per punto – ve ne sono molte altre. Ogni mese verrà rilasciata una puntata della serie video Costruttori di Babele, curata dal regista Giordano Viozzi (Sushi adv.): in una decina di minuti, con grande cura dell’immagine, si presenta agli spettatori un ispirato al bordo della strada, che abbiamo direttamente coinvolto nell’impresa. Da questi anni di ricerca e viaggi nascerà anche un libro fotografico di Marco Biancucci, che ha scelto di leggere i coloratissimi mondi dei babelici attraverso la pellicola in bianco e nero. Insomma, il tentativo resta quello di corrispondere con sensibilità e rigore alla generosa creatività di quanti abbiamo incontrato.
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