“Cosima von Bonin dispone sulla scena i suoi oggetti e non rivela molte informazioni sul loro significato”, ha scritto l’artista Arnold Mosselman nella presentazione che accompagna la mostra, e non scherza. Agli oggetti esposti in “WHAT IF IT BARKS? featuring AUTHORITY PURÉE”, facilmente identificabili, non si poteva che attribuire un significato ambiguo. Mosselman definisce la materia dell’artista “nuvola nella nebbia”, e la stessa von Bonin, parlando con lui del proprio processo creativo, ammette: “Le cose mi vengono quando vedo spettacoli britannici e film, ascolto musica o cose del genere. Oppure rubo da qualche parte. Di solito dormo”. A parte questi diversivi basati sull’ironia, alcuni temi del suo lavoro attuale sono chiari, per esempio quello della vita acquatica.
La mostra del 2016/17 al New York’s Sculpture Center era intitolata “Who’s Exploiting Who in the Deep Sea?”; certo la tematica non era in cima ai pensieri del grande pubblico, ma funzionava molto bene come metafora del triste spettacolo delle trame che in quel momento si stavano consumando nel mondo politico. La mostra stessa era un test per i visitatori: fino a che punto avrebbero tollerato il modo apertamente infantile di trattare un tema già alquanto spinoso? C’erano una gran quantità di giocattoli morbidi e allegri tessuti stampati, e l’insieme risultava sicuramente divertente, ma certo non confortante. I motivi erano probabilmente familiari all’artista dall’infanzia, ma la loro ibridazione e mutazione li faceva percepire fastidiosi, e persino crudeli.
Allo stesso modo, “WHAT IF IT BARKS?” era popolata di creature marine in versione cartoon, e ancora una volta il tono era canzonatorio e surreale. Nella prima sala della galleria un enorme paio di chele di granchio di pelo viola emergevano da una betoniera d’acciaio, come se appartenessero alla vittima di una nuova e strana tecnica di cucina industriale. E nella sala principale, una serie di mammiferi marini e di pesci era disposta in cerchio intorno a un gigantesco barattolo di cibo per gatti sospeso in aria; un’orca assassina era seduta a un banco di scuola, mentre un’altra posava il capo su una piccola sedia; sgombri ben equipaggiati barcollavano su piedistalli, alcuni brandendo chitarre o ukulele; una coppia di teste di squali sbucava da secchi d’acqua (di plastica), con siluri di stoffa a quadretti tra le fauci. Il tutto veniva ogni tanto avvolto in una nebbiolina oceanica emessa da una macchina per il fumo, nascosta all’interno del barattolo sopra menzionato. In una galleria adiacente erano cose simili: in What If It Barks 7 (Coffee Pot Version), 2018, c’era una grande caffettiera, avvolta da stoffe, con accanto un vecchio surf; e nell’opera senza data Hippo’s House (Property of Arnold Mosselman, The Hague), un piccolo pachiderma ruggiva dall’apertura di una grande mangiatoia per uccelli a forma di torre; c’erano diverse pezze di cotone monocromo (von Bonin li chiama “stracci”), ricamate con schizzi di disegni astratti, e una piramide di cartone tappezzata di cotone e lana a righe. Vicino all’entrata della mostra erano appesi i due pannelli con scritto Enough Romance, Let’s Fuck (2016), che richiamano il vecchio tema “fuck art, let’s dance”.
L’eredità artistica di Von Bonin – una veterana della scena di Colonia che attinge alla cultura pop di Martin Kippenberger e di Michael Krebber – in qualche modo contribuisce a fare un po’ di luce su questo suo approccio. Ma rispetto alle sue ascendenze storico-artistiche von Bonin si pone alternativamente come una allegra dissidente e un’attenta studiosa. Avendo smesso di preoccuparsi della reazione del pubblico, fa quello che le piace, e ciò che più le piace è partire per mari inesplorati, armata solo di canna da pesca.
Translated by Cristina Rosati from “Cosima von Bonin,” by Michael Wilson, Art in America, June/July 2018.
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