Nella sua “Critica alla Ragion Pura” Kant, nel 1781, distingueva due entità: il fenomeno e il noumeno, affermando che il primo potesse essere conoscibile attraverso l’esperienza, mentre il secondo rappresentasse l’idea dietro il fenomeno, inconoscibile e irraggiungibile. In quest’ottica, la Galleria GuidoCosta Project (Torino), ha studiato una mostra il cui filo conduttore corrisponde alla “cosa in sé”– titolo dell’esposizione – ovvero a ciò che non è possibile percepire empiricamente, bensì solamente intuibile mentalmente. I cinque artisti torinesi invitati a partecipare alla collettiva hanno quindi lavorato in collegamento diretto con l’edificio della galleria per elaborare opere site-specific che fossero capaci di rispettare quest’unica richiesta, avendo la possibilità di dialogare e confrontarsi per elaborare un discorso che, per quanto individuale, fosse coerente, come un dialogo a più voci in cui ogni partecipante esprime la propria opinione a proposito di un tema prestabilito.
Il primo intervento che ci viene presentato è “Piumatic” di Gianluca e Massimiliano De Serio: il lavoro è costituito da un’installazione video composta da due televisori posti uno sopra all’altro degli anni Ottanta, accompagnati da due videoregistratori che allora funzionavano tramite un magnetismo che permetteva alla pellicola della videocassetta di girare. Sui due schermi vengono proposte due situazioni diverse in loop, a primo impatto incomprensibili e banali, in quanto in alto vediamo una ripresa a mano di un’ipotetica persona che corre sui tetti delle case; in basso, l’inquadratura è fissa su un piccione in gabbia. Nel momento in cui si approfondisce e si penetra il significato sottostante si scopre che si sta assistendo ad una “storia d’amore” dove i protagonisti sono i piccioni, animali molto fedeli: in alto allora non è più l’ipotetica persona a tenere in mano la videocamera, ma è il piccione che, ignaro di avere questo strumento attaccato, vola verso casa dalla sua amata, guidato dal magnetismo terrestre che gli permette di ritrovare la strada di casa ovunque egli sia; in basso, invece, vediamo lo stesso piccione in gabbia, con la consapevolezza che ora esso corrisponde all’obiettivo del primo e il sesso, stavolta, è femminile, quindi come una casalinga che aspetta il marito che torna a casa da lavoro.
Il secondo – “Oltre la luce” –corrisponde ad un quadro incorniciato in una struttura di resina e ossa, all’interno della quale è possibile fruire un apparente groviglio posto su un foglio di carta. Per quanto possa essere affascinante a livello estetico ed iconografico, anche qua è maggiormente apprezzabile una volta capito a cosa corrisponde questo materiale: fungo su carta di riso, ottenuto involontariamente da Diego Scroppo, che risulta di grande efficacia e impatto, in un continuum tra soggetto e cornice per il valore cromatico e i materiali naturali utilizzati.
Il terzo spazio è stato sfruttato da Tom Johnson in modo diverso dai suoi colleghi, poiché egli ha scelto di mettere in atto una performance che ha lasciato in Galleria in mezzi utilizzati: un disegno in bianco e nero con all’interno la fotografia del padre e un water rivisitato. Inizialmente i due elementi sembrano a se stanti e, se da un lato il foglio evoca una situazione nostalgica, dall’altro il water ricorda un po’ i ready-made di Duchamp. Essa è stata messa in atto dall’artista stesso e da sua figlia, legati da un filo, mentre lui le racconta storie che, a sua volta, aveva ascoltato dal padre, ora immortalato in una foto, come un passaggio di testimone. Purtroppo, “Memorabilia” rimarrà solo nei ricordi di chi ha avuto l’opportunità di assistere all’evento.
Il quarto artista, Michele Cerutti, invece, ha deciso di presentare una tela tradizionale, dipinta, capace di spiegarsi da sola, forse anche per il fatto che la pittura non ha mai avuto grandi necessità interpretative. Intuitivamente, l’opera possiede un’atmosfera metafisica, in contrapposizione al realismo sottolineato dai piedi che però non hanno un corpo, rimandando di conseguenza ad un surrealismo grottesco, dove il dolore di un oggetto tagliente come la lamina di metallo sulla carne morbida viene annullato dalla consapevolezza che essa non è collegata ad un apparato sensoriale umano.
L’ultima installazione di Hilario Isola è costituita da due oggetti: a sinistra, appesa al muro, vediamo una cassetta in plastica, tipica del mondo agricolo, al cui interno sta un foglio di carta dipinto attraverso frutta lasciata marcire di modo che lasciasse sul bianco il proprio colore. Infatti, a primo impatto si è attratti dai semi che riescono a rimanere incollati al foglio, cercando di capire se siano stati messi appositamente, come un collage organico, oppure no; a destra, invece sembra fuoriuscire dal muro questo frutto cavo e retroilluminato, pensando si tratti di un prodotto artigianale fatto col vetro. In un secondo momento, però, all’interno della cassetta è possibile scorgere un volto animato dai colori della natura, il quale sembra guardare in direzione di quel frutto talmente reale da sembrare finto, come se riconoscesse che in esso stanno le proprie origini, o che prima o poi anch’egli subirà lo stesso destino degradante.
Alla luce di ciò, per concludere il cerchio, è opportuno tornare a Kant e al fatto che queste individualità sono riuscite a trasmettere il dualismo espresso all’inizio del testo, perché tutte le opere proposte lavorano su un duplice livello: quello apparente ed empirico, e quello ideale e metafisico, come d’altronde dovrebbe essere la fruizione di qualsiasi opera d’arte. L’arte, prima di essere un ragionamento, dovrebbe suscitare emozioni, dovrebbe avere un impatto emotivo sull’osservatore, dovrebbe parlare autonomamente, senza doversi spiegare, e indipendentemente dal fatto che la reazione sia positiva o negativa. Poi, chi vuole oltrepassare il velo di Maya, ha tutto il diritto di farlo e chiedere chiarimenti, ma consapevole che la cosa in sé non la raggiungerà mai, perché rimarrà eternamente nella mente dell’artista.
Cosa in sé
Fino al 28 febbraio 2018
GuidoCosta projects
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