Con le parole spazio della cornice si intende una sfera semisimbolica, strutturale, ambientale, meta-schermatica, comprendente non solo le manifestazioni legate alla trasmissione a distanza di immagini, ma anche tutto ciò che consente la produzione e la distribuzione di queste, oltre ai sistemi interattivi, sempre più ampi e complessi, ai quali la stessa cornice del vuoto o quella televisiva dà vita. Fanno parte di questo insieme vasto e stratificato: ciò che viene ripreso a partire dagli strumenti visuali e tecnici; il luogo dove viene racchiuso un paesaggio pittorico o dove vengono allestiti gli spettacoli montati, i lacerti di pittura e i telegiornali, le astrazioni segniche e le inchieste giornalistiche; le scenografie, le luci e le fotografie senza codice; la grafica; gli ambienti dove avviene la ricezione di quanto le telecamere registrano e i commercianti d’arte vendono; l’indotto materico e teorico della società dello spettacolo e il sapere argomentativo, che accompagnano i messaggi televisivi e la simbologia infinita dello spazio pittorico. Senza dimenticare che partecipano di questo spazio anche le trasformazioni che l’universo teatrale, domestico e performativo, i luoghi pubblici e gli organismi urbani subiscono a seguito dell’azione esercitata su di essi dal «mezzo schermatico». Per quanto detto, il concetto di horror vacui e horror pleni si sospende tra le teorie e le pratiche della cornice pittorica e dei mass-media e la fisicità di ambiti reali e di strutture concrete.
Il testo di G. Simmel (un sociologo ante litteram per la sua stessa formazione) sulla cornice ci permette di gettare sulla cornice schermatica un nuovo sguardo originale, dilata il tema della cornice e il paradigma del perimetro del vuoto potenziale, mettendo in evidenza “l’antica novità semantica e mediale”, proponendone i modi principali, formulando alcune ipotesi interpretative su una serie di aspetti significativi del mondo artistico e mediatico. In termini assoluti, la definizione di spazio vuoto della cornice è il luogo illimitato e indefinito in cui gli oggetti e le assenze appaiono collocate e, in tal senso, esso viene accostato al tempo nelle “viste” della filosofia naturale. In architettura viene affrontato attraverso una prima, sommaria distinzione in spazi interni e spazi esterni alle strutture architettoniche.
Cornice: telaio liscio od ornato complemento del dipinto su tela o su tavola che racchiude il quadro. La cornice è detta originale se eseguita su disegno del pittore. Le cornici antiche sono generalmente a foglia d’oro, fatta aderire al gesso mediante un fondo di “bolo” (vernice rossa che a volte traspare sotto l’oro, accrescendone il fulgore). La cornice moderna non è ligia ad alcuna norma architettonica e viene variamente colorata ed ornata dal pittore stesso. In architettura la cornice è la parte superiore della trabeazione, sporgente sul fregio. Sinonimo di cimasa (cornice aggettante di un edificio o di un mobile): la cimasa è una modanatura curva e sporgente, a forma di guscio o di gola. Nell’architettura greca o romana prendeva il nome di sima e costituiva la parte terminale della cornice, spesso fornita di fori per lo scarico dell’acqua piovana dai tetti, generalmente decorati con teste di leone. Sono ormai più di 30 anni, almeno dagli articoli pubblicati sullo schermo e sui dispositivi a cornice schermatica (mi riferisco ai miei articoli e saggi su Flash Art della fine degli anni ’80 e dei primissimi anni ’90), che la questione della cornice e dello schermo ritorna con insistenza nella ricerca dell’immagine mediale o dei sistemi interattivi. Nel programma del Seminario da me coordinato (a Paris IV), dal titolo “Vivere fuori e dentro la cornice” e, ancor prima, nella rassegna del 1984 “Città senza confine”, si legge: «cornici e schermi sono diventati i vecchi e nuovi dispositivi attraverso i quali noi ci incontriamo, noi incontriamo il mondo: nel suo vuoto o nella sua immagine fissa e in movimento. Una rivoluzione percettiva e cognitiva si sta sviluppando che raccoglie la retorica della vecchia cornice nelle dimensione dei nuovi schermi fluttuanti: da Andrea Pazienza a Massimo Giacon, da Santolo De Luca, Fabrizio Passarella, Maurizio Cannavacciulo a Studio Azzurro, Tullio Brunone, Davide Maria Coltro, Tommaso Tozzi. Gli occhi dentro e fuori la cornice sono diventati gli elementi inseparabili di un unico sistema mediale e sociale, che pone il problema del suo regime scopico e del suo governo”. In effetti, che quello delle “cornici vs le interfacce” (e viceversa) sia un problema dalle vaste implicazioni mediali è davanti all’intuizione di tutti.
La cornice come paradigma mediale è una riflessione su questi snodi storico-semiotici e la sistemazione della mia indagine ormai quarantennale sull’archeologia del telaio-schermo (mediale) nelle sue forme analogiche (vedi Città senza confine) – con una predilezione per il confronto tra istantanee fotografiche e video – il Medialismo esplora le morfologie attuali dello schermo, spingendosi fino alle questioni dell’immersività, del volano digitale, passando dalla cornice vuota al touchscreen, dallo spazio pittorico alle wearable technologies assoldate da Miltos Manetas.
L’alta e la bassa definizione di un’immagine o di un vuoto (come nel caso di Malevic) dipendono dalle proprietà materiali dei perimetri evidenziati e dei dispositivi che ne determinano le condizioni di visibilità. Lo spazio del pieno e del vuoto, tra cornici e schermi definisce anche concezioni più ristrette e allargate, come l’estensione entro cui può svolgersi lo sguardo della persona o del creativo: uno spazio definito e circoscritto, ma allo stesso tempo in grado di accogliere infiniti oggetti e infinite azioni. Così come le idee di contiguità, vicinanza, immagine fissa e immagine in movimento, possono essere messe in discussione dalle disparità introdotte dai vecchi e nuovi sistemi mediali, alla stessa stregua anche lo spazio schermatico (della Cornice televisiva) introduce nuove retoriche espositive con cui bisogna confrontarsi, introducendo nuovi livelli nella quotidianità e nella percezione del reale, del vuoto e del finito. Lo spazio della nuova e vecchia cornice e dei nuovi e vecchi schermi può definire una larga varietà di concetti e, proprio per questo, si presenta come un campo di indagine tanto suggestivo quanto concettualmente intrigante. Lo spazio “esosmotico” della cornice – secondo G. Simmel – può definire una larga varietà di nozioni e perciò si presenta come un campo di indagine assai problematico.
Cornice e televisione oscillano tra la limitatezza dell’apparecchio o del dispositivo architettonico, oggi ridotto a dimensioni tascabili, e la vastità dello spazio assoluto entro il quale le sue onde vengono diffuse; e si spinge anche oltre lo smartphone, nel campo indefinito della nostra simbiosi tra cervello-macchina e cornice di dati statistici che raccolgono i prodromi dell’AI.
Tra vuoto e perimetro: Per molti versi l’opera filosofica di G.S. è stata consegnata agli archivi della storia dell’arte e dell’archeologia del moderno. Eppure, se la si considera nella prospettiva della storia della scienza e dell’archeologia della modernità, essa presenta dei contenuti non così rapidamente risolvibili in quella “metafisica del vuoto” che la contraddistingue. Quanto meno, possiamo definirla una prospettiva orientata verso un’archeologia della visione, che individua – attraverso il saggio sulla cornice – un posto di rilievo nel dibattito sui “perimetri del figurale”, sulle tecniche dell’assenza e sulla funzione dell’autore e dell’osservatore nel XVIII e nel XIX sec. Così, si può ritornare a quelle pagine sulla Cornice e sui Supplementi alla Cornice in cui G.S. ricorre a dispositivi ottici, per considerare le funzioni discorsive alle quali essa adempie e i presupposti epistemologici che essa comporta, in relazione al modo in cui la filosofia incorpora i contenuti della scienza, della tecnologia, della storia e della semiotica del vuoto. Nel caso specifico, la posta in gioco è data dalla messa a tema del rapporto tra visibile e invisibile nello spazio della cornice, dello statuto epistemologico della natura (incarnata) del vuoto e dell’economia del visibile, istituita da un paradigma metafisico dell’assenza di immagine. In questo senso G.S. rappresenta una tappa rilevante nel pensiero moderno, benchè egli sia stato trascurato da quelle indagini che, pur dipanando il filo conduttore della Finestra del Vuoto, hanno di certo avuto il merito di portare alla luce la funzione ideologica svolta dal perimetro dell’assenza nel discorso estetico-filosofico. In alcuni passi rilevanti del saggio, G.S. impiega il sottotesto della “nozione di terz’occhio”, intesa come apparato che apre un regime di visibilità capace di ridefinire il ruolo e l’ambito specifico dell’estetico. La cornice, infatti, non è soltanto una non-immagine esemplare con cui si possa descrivere il rapporto tra soggetto osservatore e la realtà esterna tramite una rappresentazione della finestra sull’infinito, l’anticipazione dell’al di là metafisico del taglio di Lucio Fontana, ma è pensata da G.S. come un dispositivo di cattura di “essenza-assenza” per mezzo del quale quest’ultima è resa visibile, leggibile e interpretabile. In effetti, G.S. si colloca in un momento della storia della fisica ottica, in cui si produce una discontinuità storica che prelude all’affermazione di un modello energetico e fisiologico di ampi sviluppi tra il XVIII e il XIX secolo. È noto che almeno a partire da Cartesio, i percorsi del pensiero moderno hanno fatto frequente ricorso alla “perimetrazione del vuoto” come modello di una visualità epistemicamente fondata e oggettiva, presupposto garantire una rappresentazione veritiera della realtà fisica del “niente” (o ex-novo).
Il discorso di G.S. per alcuni versi si rifà alla tesi del Goethe naturalista e alla naturphilosophie romantica e, benché riviste alla luce degli sviluppi ottocenteschi della fisiologia, segna una frattura rispetto a quei percorsi. Infatti, in G.S. la presunta realtà oggettiva, di cui la finestra del vuoto avrebbe fornito l’assenza adeguata e naturale, perde i suoi connotati, mostrandosi invece dipendente da un regime dominato da forze invisibili. La cornice del vuoto smette così di svolgere una funzione di accoglienza e si presenta come un apparato naturale, che agisce a cavallo tra una realtà fenomenica, oggetto del discorso scientifico, e una realtà noumenica, oggetto del discorso critico. Non solo muta radicalmente la sua funzione, ma muta anche il suo senso. L’estetica del vuoto svolge qui, strutturalmente, il ruolo architettonico tra i due regimi scopici (della sostanza del vuoto e del perimetro) e i due regimi discorsivi (assenza e accoglienza).
La tesi più celebre riguardante la dialettica tra “intero” e “parte”, espressa nell’introduzione del saggio, è che vi sia una verità dell’arte, una legge della “propria essenza”, e che una parte sia connessa a una totalità, dalla “quale ottiene senso e forza”. Tuttavia, la cornice chiarisce anche che non si tratta di quel semplice sistema di separazione che nel mondo fenomenico è soggetto al principium individuationis, perché la vita dell’opera d’arte: “è un’essenza tutta per sé, che non ha bisogno di nessun rapporto con l’esterno, ma riconduce ognuno dei fili della sua trama al proprio punto centrale”. Se l’arte svolge la funzione di cerniera tra la vita e il mondo fenomenico, l’arte e la cornice appartengono però a due piani ben distinti, seppure tangenti, dal momento che spetta all’arte il compito di sollevare l’esosmosi di cui il mondo dei fenomeni è intessuto e permette la pura contemplazione del vuoto, che riflette il mondo sensibile ma portandolo a perfezione. L’arte è anche contemplazione disinteressata, operare nell’assenza, “perciò tutta l’armamentario della cornice scorre come una corrente tra due rive”.
La metafisica simmeliana della cornice non è evidentemente dissociabile da una morfologia, pur essendo soggetta alle leggi di una eziologia che per definizione è interessata a riferire la molteplicità della trasparenza alla comune radice della volontà. Proprio per questo, al pari dello spazio illimitato, anche per lo spazio mediale risulta difficile trovare una definizione univoca. Se nel gergo tecnico-mediale, la cornice denomina semplicemente i tempi di programmazione o le frequenze che vengono utilizzate, per un cyber-fotografo lo spazio degli schermi può essere lo spazio occupato fisicamente dal suo tessuto multimediale, o lo spazio della propria percezione, o lo spazio del viaggio mediale che viene poi trasmesso nell’etere. La prima impressione è che tutti tendono a prendere come riferimento realtà fisiche più o meno concrete che siano il più possibile vicine alla loro quotidianità, che siano il più possibile “reali” (virtuali).
Ma dove si pone il limite di questi punti di convergenza tra cornice e schermo? Nello spazio di cui abbiamo bisogno per seguire le riproduzioni dobbiamo comprendere dal tubo catodico, la nostra mente, i canali di you tube, il regime scopico del web e dei sistemi interattivi, etc …, ovvero dove la trasmissione passa dalla condizione dello spazio bidimensionale a quello tridimensionale e quadridimensionale dell’AI! Se la cornice e lo schermo sono solo una rappresentazione fittizia, l’immagine che ce ne facciamo attraverso la fluidità schermatica è il vero spazio UIQ di cui parlava Felix Guattari. Anche ammettendo che lo spazio delle vecchie e nuove cornici sia tutto ciò che abbiamo provato ad elencare sopra, rimane ancora molto da dire e da chiarire dopo G.S., poiché non è facile delineare un confine tra paradigma reale ed irreale nei termini a noi abituali. Proveremo, dunque, a considerare lo spazio della cornice come una prosecuzione della realtà con altri mezzi e su diversi livelli e in quanto tale concettualmente associabile all’idea di vuoto quantico. All’interno della vastità delle categorie e delle influenze, ci proponiamo attraverso la lettura di questi livelli di offrire una possibile chiave interpretativa al fine di meglio identificare le condizioni e le caratteristiche del vuoto riconducibile allo spazio mediale della “cornice espansa”.
La cornice (1902) di Georg Simmel
Il carattere delle cose dipende in ultima istanza dal fatto che siano un intero o una parte. Che un’esistenza autosufficiente, chiusa in sé, venga determinata soltanto dalla legge della propria essenza, o che, come una parte, sia connessa a una totalità, dalla quale soltanto ottiene senso e forza, questo distingue l’anima da ogni elemento materiale, l’essere libero dal mero essere sociale, la personalità morale da quella che la sensualità del desiderio fa dipendere dalla trama di tutto ciò che è dato. E questo separa l’opera d’arte da ogni elemento della natura. Infatti, come esistenza naturale, ogni cosa è un mero punto di passaggio di energie e materie che scorrono ininterrottamente, comprensibile solo in base alle premesse, significativa solo come elemento di tutto il processo naturale. Essenza dell’opera d’arte è di essere, invece, una totalità per sé, che non ha bisogno di alcun rapporto con l’esterno, ma magari conduce ognuno dei fili della sua trama al proprio punto centrale. Essendo l’opera d’arte ciò che altrimenti possono essere soltanto il mondo come totalità o l’anima: un’unità di elementi particolari, essa si separa, come un mondo per sé, e da tutto l’esterno. Analogamente, i suoi confini significano qualcosa di completamente diverso da ciò che si definisce confine di una cosa naturale. In quest’ultima, i confini sono solo il luogo di una continua esosmosi ed endosmosi con l’esterno, ma nell’opera sono assoluta chiusura che nello stesso atto si manifesta come indifferenza, ma anche come difesa nei confronti dell’esterno, e come sintesi unificante nei confronti dell’interno. La prestazione della cornice nell’opera d’arte è di simboleggiare questa duplice funzione del suo limite rafforzandola. Essa esclude ogni elemento esterno e quindi anche il fruitore dell’opera d’arte, contribuendo a porlo a quella distanza in cui soltanto l’opera è fruibile esteticamente. La distanza di un’essenza da noi significa in ogni ambito spirituale l’unità di quest’essenza in se stessa. Perché solo nella misura in cui un’essenza è in sé conchiusa, possiede quel cerchio in cui nessuno può penetrare, quell’essere-per-sé con il quale mantiene il proprio riserbo nei confronti di qualsiasi altro ambito.
Distanza e unità, antitesi nei nostri confronti, e sintesi al proprio interno, sono concetti reciproci; le due proprietà fondamentali dell’opera d’arte: l’unità interna e l’appartenenza a una sfera staccata da tutta la vita immediata, sono una sola, e medesima proprietà, soltanto vista da due lati diversi. Solo quando e perché possiede questa autosufficienza, l’opera d’arte ha tanto da darci, quell’essere-per-sé è lo slancio per penetrare tanto più profondamente e pienamente in noi. Il sentimento del dono immeritato con cui ci rende felici trae origine dalla fierezza di questa perfezione di sé paga, con la quale tuttavia può divenire nostra.
Le proprietà della cornice si rivelano come contributi e manifestazioni sensibili di una tale unità interna. A partire da qualcosa di apparentemente casuale come punti di fuga all’interazione dei suoi lati. Seguendo queste fughe lo sguardo scivola verso l’interno; dato che l’occhio le prolunga fino al loro ideale punto di intersezione, il rapporto del quadro con il proprio centro viene accentuato da tutti i lati. Questo effetto sintetico delle fughe della cornice si rafforza evidentemente in quanto i suoi lati esterni sono più alti di quelli interni, così che i quattro lati formano piani convergenti. Per lo stesso motivo mi sembra che sia da respingere una forma oggi assai frequente: il sollevamento del lato interno, così che la cornice si abbassa verso l’esterno. Poiché lo sguardo, come il movimento fisico, procede più facilmente dall’alto verso il basso che non viceversa, in questo modo viene inevitabilmente spostato dal quadro e guidato verso l’esterno e la coesione del quadro subisce una dispersione centrifuga.
È più importante per la funzione di esclusione che per quella di sintesi il fatto che il lato della cornice sia incastonato tra due liste. Perciò tutta l’ornamentazione o la sagoma della cornice scorre come una corrente tra due rive. E proprio questo favorisce quella posizione insulare della quale l’opera d’arte ha bisogno in rapporto al mondo esterno. È perciò di estrema importanza che il disegno della cornice renda possibile uno scorrere continuo dello sguardo come se continuasse sempre a rifluire su se stesso. Perciò la cornice non può mai presentare nella sua configurazione una breccia o un ponte, attraverso i quali il mondo possa, per così dire, penetrare nel quadro, o il quadro possa uscire nel mondo – come accade, per esempio, quando il contenuto del quadro continua nella cornice; un’aberrazione rara, per fortuna, che nega l’essere per sé dell’opera d’arte e, proprio in questo modo, smentisce completamente il senso della cornice. Lo scorrere della cornice, che si chiude in se stesso, non significa però che la sua ornamentazione debba correre parallelamente al bordo. Al contrario, proprio per porre in rilievo con chiarezza il fluire della cornice, che fa del quadro un’isola, le linee dell’ornamento debbono divergere fortemente, fino alla verticale, dalle parallele. Tutte le linee oblique rispetto al lato della cornice costituiscono degli arresti di quella corrente. Ma la forza e il movimento, da noi sentiti esteticamente, si identificano e si palesano nel superamento di tali ostacoli. Tutta la formazione dell’ordinamento della cornice trova il proprio principio regolativo del destare l’impressione dello scorrere e del chiudersi con cui sottolinea la separazione del quadro da tutto ciò che lo circonda; così che ogni linea di separazione è giustificata nella misura in cui contribuisce a intensificare quell’impressione fino al proprio massimo. Per lo stesso motivo diviene comprensibile la prassi adottata da molto tempo di dare al quadro più piccolo la cornice più ampia, in ogni caso quella che raggiunge l’effetto più energico. Infatti in questo caso il pericolo di confondersi con lo sfondo per la contemporaneità della visione, di non risaltare con sufficiente autonomia, deve venire affrontato con mezzi più energici, che provochino una chiusura più netta di quella necessaria a un grande quadro che da solo occupa una parte rilevante del campo visivo. Non avendo bisogno di temere alcuna concorrenza alla significatività autonoma della propria impressione, può contentarsi di una chiusura minima da parte della cornice.
Il fine ultimo della cornice fornisce la prova dell’inaccettabilità di certe cornici rivestite di stoffa che sporadicamente fanno la loro comparsa; un pezzo di stoffa viene sentito come parte di una stoffa molto più grande, non c’è un motivo intrinseco per il quale il disegno venga troncato proprio a questo punto, di per sé consentirebbe una prosecuzione illimitata – la cornice di stoffa è priva perciò di un termine legittimato dalla forma e non può quindi escludere qualcos’altro. Con stoffe prive di disegni, dove questa mancanza di compiutezza e di capacità d’esclusione risalta meno, basta già la morbidezza del bordo, di tutta l’impressione ridestata dalla stoffa, a generare lo stesso difetto. La stoffa manca di quella struttura organica propria, mediante la quale il legno ottiene in se stesso una compattezza così efficace e così semplice, di cui si sente la penosa mancanza nelle imitazioni, mentre è percettibile nella cornice lavorata a intaglio e dorata nonostante il rivestimento. Infatti la duratura non nasconde le lievi irregolarità del lavoro fatto a mano, attraverso le quali si manifesta la sua vitalità organica che è superiore all’impecabilità del lavoro fatto a macchina.
Questo principio, rettamente inteso, spiega perché oggi il buon gusto vieti in ambienti che raggiungono un certo grado di raffinatezza di tenere in cornice fotografie dove il soggetto è la natura. La cornice si adatta soltanto a strutture che hanno un’unità separata, che una parte della natura non ha mai. Ogni sezione della natura immediata è collegata con mille relazioni spaziali, storiche concettuali, sentimentali con l’ambiente, con tutto ciò che con un grado di prossimità fisica o spirituale maggiore o minore la circonda. Solo la forma artistica taglia questi fili e li riannoda, per così dire all’interno. Pertanto con il segmento di natura, che istintivamente sentiamo come mera parte nella connessione del grande intero, la cornice appare in contraddizione. E sembra quasi esercitare una violenza nella stessa misura in cui, invece, il principio interno vitale dell’opera d’arte la comporta e la richiede.
Un altro equivoco di principio che riguarda la cornice deriva dalle moderne pecche del mobile. L’assioma secondo cui il mobile è un’opera d’arte ha eliminato molto cattivo gusto e molte insipide banalità, ma i suoi diritti non sono così positivi e illimitati come il pregiudizio ad esso favorevole potrebbe far credere. L’opera d’arte è per sé, il mobile è per noi. Come manifestazione sensibile di una unità spirituale, l’opera d’arte pittorica può anche avere un grado di individualità così alta: appesa nella nostra stanza, non si intromette nelle nostre cerchie di attività, perché ha una cornice, ossia perché è nel mondo come un’isola, che attende il nostro arrivo, ma davanti alla quale si può anche passare oltre. Invece, il mobile lo tocchiamo continuamente, si mescola alla nostra vita e non ha quindi alcun diritto a un essere-per-sé. Qualche mobile moderno, poiché è l’espressione immediata dell’artisticità individuale, sembra degradato quando lo usiamo per sederci; reclama, formalmente, una cornice. Essendone privo, ma standosene nella stanza, opprime l’uomo che, infine, con la sua individualità dovrebbe essere la cosa principale, mentre al mobile competerebbe soltanto lo sfondo. È un’ipertrofia del senso moderno dell’individualità il fatto che dovunque si senta predicare l’individualità del mobile. È lo stesso equivoco, la stessa confusione di ranghi che si verifica quando si vuol conferire alla cornice un valore autonomo: con ornamenti figurati, con il fascino del colore, con una forma o un simbolismo che ne fanno espressione di un’idea artistica autosufficiente. Tutto questo dimentica e modifica la posizione subordinata della cornice nei confronti del quadro. Come la cornice di un’anima può essere soltanto un corpo, ma non un’altra anima – così un’opera d’arte, che è per sé, non può assumere il ruolo della cornice accentuando e sostenendo l’essere-per-sé di un’altra opera: la rinuncia necessaria a questo scopo esclude l’essere artistico.
Come il mobile, la cornice non deve avere un’individualità, ma uno stile. Lo stile è un alleviamento per le personalità, la sostituzione dell’accentuazione individuale con una generalità più ampia; perciò, mentre un oggetto delle arti applicate richiama subito l’attenzione sullo stile in cui è fatto, nei confronti dell’opera d’arte ci poniamo questa domanda in misura molto minore – anzi, lo stile delle più grandi opere d’arte ci è in larga misura indifferente: l’individuale sovrasta qui quel carattere generale che chiamiamo stile, e che il singolo oggetto condivide con infiniti altri; da questo carattere superindividuale deriva quell’effetto di attenzione e di tranquillità che proviene da tutti gli oggetti fortemente stilizzati. Nelle opere umane lo stile è un medium tra l’unicità dell’anima individuale e l’assoluta universalità della natura. Perciò l’uomo, dato il livello culturale che lo separa dal mondo meramente naturale, si circonda di oggetti stilizzati e perciò per la cornice dell’opera d’arte, che nel suo rapporto con l’ambiente ripete quello dell’anima con il mondo, lo stile, e non l’individualizzazione, è il giusto principio vitale.
Anche se la posizione estetica della cornice non viene meno determinata da una certa indifferenza che da quelle energie delle forme – il cui scorrere omogeneo la caratterizza semplicemente come la custode dei limiti del quadro – proprio le cornici molto antiche sembrano essere in contrasto con questo principio. Qui i lati hanno spesso forma di pilastri o di colonne che portano un cornicione o un timpano: in questo modo le parti, e il tutto, sono molto più differenziate e significative che in una cornice moderna, i cui quattro lati possono senz’altro supplirsi vicendevolmente. Attraverso questa severa architettonica, attraverso una sorta di reciproca divisione del lavoro dei suoi elementi che necessitano l’uno dell’altro, la chiusura dell’interno da parte della cornice viene intensificata al massimo; ma in questo modo, la cornice ottiene una propria vita organica e un’importanza che entrano in concorrenza con la sua funzione di mera cornice, sminuendola. Vi può essere una giustificazione fintanto che l’unità artistica interna del quadro, che lo racchiude in sé e lo esclude dal mondo, non viene ancora sentita in modo sufficientemente forte. Quando il quadro era impiegato ai fini del servizio divino, quando veniva attratto nell’esperienza religiosa della vita, quando mediante i rotoli delle sentenze o altre interpretazioni si rivolgeva direttamente all’intelligenza dello spettatore, se ne potenziavano le sfere extra-artistiche che minacciavano di spezzare la sua formale unità artistica. Lo soccorre la dinamica della cornice architettonica, le cui parti, con il reciproco rinvio, creano una connessione indistruttibile e, in questo modo, una separazione. Quanto più l’opera d’arte respinge tali relazioni esterne, tanto più può fare a meno delle forze della cornice, che con la propria vitalità organica smentiscono la loro funzione di servizio.
Il fatto che, rispetto alla cornice architettonica, il carattere molto più meccanico e schematico dei quattro lati uguali della cornice moderna rappresenti un progresso, include la cornice in un principio dell’evoluzione culturale di più ampia portata. Non è affatto vero, cioè, che essa conduca sempre il singolo elemento da una forma meccanicisticamente esteriore a una organicamente viva, di per sé piena di significato. Al contrario: se lo spirito organizza la materia dell’esistenza in modo sempre più comprensivo e in configurazioni sempre più elevate, infinite formazioni, che fino a oggi conducevano una vita in sé conchiusa, e rappresentavano un’idea propria, vengono degradate a elementi parziali di connessioni più grandi, la cui azione è meramente meccanica: soltanto queste sono divenute ora i veicoli dell’idea, mentre quelli sono puri mezzi, la cui esistenza particolare è priva di senso. Questo è il rapporto che intercorre tra il cavaliere medievale e il soldato dell’armata moderna, l’artigiano indipendente e l’operaio di fabbrica, il comune chiuso e la città dello stato moderno, la produzione domestica e il lavoro all’interno dell’organizzazione di mercato dell’economia monetaria e mondiale. Da essenze coesistenti, reciprocamente autonome, autosufficienti, cresce una formazione che si estende, alla quale le prime cedono per così dire la loro anima, il loro essere-per-sé, per riconquistare solo come sue parti, che funzionano meccanicamente, un senso della loro esistenza. Perciò la forma meccanicamente uniforme e priva di significato proprio della cornice dimostra, in rapporto alla sua configurazione architettonica o comunque ‘organica’, che il rapporto tra il quadro e l’ambiente solo ora è stato integralmente compreso e adeguatamente espresso. La spiritualità, apparentemente più elevata, della cornice che ha un significato proprio, testimonia di una minore spiritualità e la comprensione dell’intero cui appartiene. L’opera d’arte è nella situazione intrinsecamente contraddittoria di dover produrre con il suo ambiente una totalità unitaria, mentre è essa stessa già una totalità; per essa si ripete in questo modo la difficoltà universale della vita, che consiste nel fatto che anche gli elementi della totalità pretendono di essere di per sé totalità autonome. È evidente quale delicatissima ponderazione di accenti e sfumature, di energie e di ostacoli, sia necessaria per la cornice, se vuol svolgere nell’ambito del visibile la funzione di mediare tra l’opera d’arte e il milieu, separando e congiungendo – un compito che trova la propria analogia in campo storico quando si vuole evitare che l’individuo e la società si schiaccino reciprocamente.