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home Artisti, Personaggi, Riflessioni, Scultura Centenario della nascita di Pietro Cascella (1921-2021)

Centenario della nascita di Pietro Cascella (1921-2021)

di Francesca Triozzi

Ed è con questi solidi fantasmi che sono ora diventato quasi vero uomo

Le stagioni passavano così con i venti, che mi parevano le portassero, e portavano altri colori: veniva l’autunno con tutto quell’oro dei pioppi lungo il fiume, una festa strepitosa di tonalità che facevano rinnovare l’interno di ogni essere vivente, che facevano cambiare il sentimento verso le cose, verso tutto“.

La luce al mutare delle stagioni, le chiese romaniche ospitate dalle maestose montagne abruzzesi, il sole misterioso che sorge dal mare, sono il punto di partenza delle opere di Pietro Cascella, rappresentano la traccia di quel sentimento naturale e originario che permane in tutte le sue sculture, non disgiunto dalla serietà e dal rigore del mestiere, introiettati attraverso il quotidiano insegnamento del padre. Pietro era nato a Pescara il 2 febbraio del 1921, in un piccolo borgo di povere casupole costruite tra i campi e il mare. Cresce nella casa paterna di via Marconi, nel quartiere di Porta Nuova, il centro storico della vecchia Pescara, accanto all’ex stabilimento cromolitografico edificato dal nonno Basilio Cascella, personaggio eclettico e capostipite della famiglia, nonché iniziatore delle cinque generazioni di artisti. Ancora molto giovane, nel 1938, Cascella si trasferisce a Roma per frequentare i corsi all’Accademia di Belle Arti sotto la guida del pittore Ferruccio Ferrazzi. Nell’immediato dopoguerra, in una Roma stremata dalla povertà e dalla precarietà, Pietro non rinuncia al talento e alla passione per l’arte e insieme al fratello Andrea (1919-1990), anch’esso artista, esercita il mestiere di decoratore per sbarcare il lunario, mettendo a frutto “l’intelligenza delle mani”. Inizia così a lavorare a Valle Inferno, una fornace di laterizi.

D’inverno quel posto era davvero infernale di squallore. Ma il problema era quello di sopravvivere ai tempi. La gente era al verde. Al massimo ci chiedeva qualcosa di utile: una scodella, un piatto da poterci mangiare dentro (…). I nostri piatti, le nostre scodelle avevano già il germe della scultura: erano panciute, spesse, solide“.

Le gigantesche ceramiche dai colori sgargianti e vivaci sono pervase da un’impronta surrealista e da un’immaginazione fantasiosa e ricca di suggestioni preistoriche e insieme popolari. Una irrefrenabile creatività coronata con il successo del Gruppo Valle Inferno alla Galleria L’Obelisco a Roma, con la personale ‘a più mani’ del 1949.

Totalmente, pienamente scultore credo di esserlo diventato al tempo giusto. Prima ero spaventato. Avevo paura, anche aldilà degli ostacoli contingenti. E non avevo torto. L’ho capito dopo, nei momenti in cui arriva la pietra ma non arriva la statua. Allora è un disastro. Se non ci sei preparato, è la fine. Ti resta addosso, fisicamente incombente, il macigno da cui non sei riuscito a districare l’immagine“.

Il primo monumento è una fontana costruita per la città di Pescia Romana nel 1960. L’opera ricorda un antico abbeveratoio per il bestiame. Le forme semplici e immediate scelte dall’artista anticipano le soluzioni che saranno adottate nelle successive sculture monumentali. Per la fontana del borgo viene utilizzato il calcestruzzo martellato, un materiale edilizio ancora grezzo e poco elegante. Ma ancora prima, tra il 1956-1957 e fino al 1967, Pietro si era misurato con un’impresa ardua e poderosa che avrebbe segnato per sempre la sua vita e la sua carriera di scultore: la costruzione del Monumento ai martiri del popolo polacco e di altri popoli, nel campo di concentramento di Auschwitz, un compito al quale lo scultore dedicherà quasi dieci anni di lavoro, operando al fianco degli scalpellini polacchi e impiegando una pietra arenaria locale chiamata Radkuf, estratta nelle vicinanze di Oświęcim. Nessuna immagine simbolica sarebbe stata in grado di esprimere la tragedia dell’Olocausto, il vuoto di fronte all’annientamento di milioni di vite brutalmente spazzate via da un odio disumano e insaziabile. Il muto arcaismo delle pietre tombali invita a una presa di coscienza, al contatto metafisico con la sofferenza indicibile evocata dalla spettrale pianura circostante, che è rimasta integra conservando i sinistri fabbricati della morte. L’arcaismo di Pietro Cascella è molto più remoto nel tempo di quanto si possa immaginare. È una ricerca continua dell’arte del primordio, l’evocazione di quello spirito ancestrale legato alla necessità di creare immagini concrete che vivono nei secoli, manufatti artistici, come la Venere di Willendorf, dalle quali Cascella trae la conoscenza della forma e trova nutrimento per la sua ispirazione. Lontano da qualsiasi atteggiamento intellettualistico e fermamente distante dalla visione di un’arte sovente asservita al mercato e alle tendenze in voga, Cascella porta avanti le sue intuizioni plastiche con il desiderio di lasciare un segno indelebile attraverso immagini archetipiche: la donna, la madre, la sposa, la nascita, la germinazione. La sua arte è invasa da un sentimento positivo e incoraggiante, è un perenne inno alla vita, come dimostra perfino la Volta Celeste e la Cappella Gentilizia (1993), il complesso monumentale del mausoleo funebre a Villa San Martino. L’artista non abbandona mai del tutto la figurazione, tanto che le sue forme diventano con il passare degli anni icone ricorrenti e riconoscibili in uno stile consolidato ma sempre rinnovato, energicamente essenziale e comunicativo. Sono figure possenti e vitali, estratte con forza michelangiolesca dal blocco di marmo, in una fase di costante e indispensabile ascolto interiore che precede il sapiente intervento sulla materia. Il materiale privilegiato è il travertino, una pietra “intelligente” legata alla cultura mediterranea. Cascella lo sceglieva spesso per le sue opere monumentali, perché questa pietra si rivelava nelle sue mani: le sculture trattate con la tecnica della sabbiatura diventano ruvide e vibranti, sensibili ai riflessi di luce e si riappropriano delle caratteristiche naturali identitarie. Cascella riesce così a trasfigurare le forme della quotidianità imprimendole nel marmo, fino a renderle solenni. I suoi monumenti, benché possano sembrare in apparenza distaccati dal contesto urbano circostante, che spesso si rivela inospitale, risultano alla fine perfettamente integrati nelle piazze già esistenti. Il Monumento a Mazzini a Milano (1974) ne è l’esempio più alto: una passeggiata nella pietra capace di rievocare le vicende risorgimentali con uno spirito celebrativo del tutto innovativo, in quanto autentico e privo di retorica. Il monumento, restituito del proprio valore semantico, diventa per il passante un itinerario della memoria. Uno degli ultimi “sogni di pietra” è l’Ara del Sole (1998), sulla spiaggia sarda di Arbus. L’imponente scultura, leggera sulle dune di Piscinas, è una testimonianza forte e suggestiva che denota l’incredibile capacità dell’artista di integrare ‘organicamente’ l’opera all’interno del paesaggio: il giorno del solstizio d’estate il sole che tramonta si posa perfettamente al centro dell’ara, inondando il disco di luce dorata. Il luogo d’incontro creato da Cascella diventa sacro nel momento in cui il fruitore stabilisce un contatto con l’arte della pietra e ne diventa partecipe. Il desiderio di Pietro è la presenza umana nella spazialità accogliente delle sue sculture.

Certe volte vivo nelle forme, entro in esse e incomincio a viverle nel loro segreto, ne capisco il sentimento, e in questo corrispondere, anzi rispondere, io lavoro, e da loro traggo ancora oggi il nutrimento. Le pietre sono le mie parole, cerco un linguaggio di pietra per raccontare agli altri la mia parte di mondo che capisco“.

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