L’aria è fredda e pesante di disperazione. Testimoni sono i vestiti sdruciti e i piatti sporchi. In un dipinto del 2006 è il retro di un piatto attaccato alla sua superficie anonima a scandire il titolo, scritto con sottili colpi di matita: “E’ di nuovo incinta”. L’opera è un utero e allo stesso tempo uno spazio vuoto. Ecco i bambini: le loro gambe sono magre o non ci sono affatto, i loro giocattoli sono consumati, fatti a pezzi (come il coniglietto marrone Beanie Babies, con le orecchie di velluto un po’ troppo vicine a quel coltello svizzero, in Non verbal 2005/2011). La loro TV è spenta, sopra c’è uno strofinaccio rosso sbiadito: ha soffocato un piccolo incendio? Il mondo di Cathy Wilkes è pieno di scintille, deboli e vibranti. La vita si intravede attraverso assemblaggi di scatole usate ed abusate, oggetti abbandonati, cose domestiche.
Però i bambini sanno ancora disegnare e scrivere. “Tutte le cose sono state fatte da questo e senza questo niente fu fatto di ciò che fu fatto”, recita un passaggio trascritto con cura su un foglio a righe da una mano infantile (Untitled, 2017). E’ un po’ assurdità, un po’ atto di fede; è una storia sulla creazione che fa rima senza ragione. E Wilkes rifugge la ragione. Vuole che il suo lavoro sia vissuto come un grande mistero che si svela con distacco materno. Madri manichino stanno in piedi rigide con le loro calze strappate, galleggiano sopra foglie d’ortica secche, danzano come possedute dalla routine del pulire, o siedono curve su una bottiglia di alcool mentre i bambini vicino le guardano affamati. Nelle loro veglie sono quei frammenti di narrazione – residui incrostati, pezzi di specchio – ricomposti e poi di nuovo scomposti per questa inquietante retrospettiva.
Cathy Wilkes | MOMA PS1 New York
22-25 Jackson Avenue, 46th Avenue
22 ottobre – 11 marzo
Articolo originale pubblicato da ArtForum e tradotto da Cristina Rosati
© Artforum, January 2018, “Cathy Wilkes,” by Mira Dayal.