Con La vita sessuale di Catherine M. già ci occupammo del caso della nota scrittrice-critico d’arte! Per una rivista come Segno l’opera della Millet non è poi così sconosciuta! Infatti, nell’ambito del piccolo sistema artistico internazionale viene considerata come la fondatrice di Art press e un’autrice di spicco dei saggi e delle monografie sull’arte concettuale. Eppure, la riprova del fatto che il movimento dell’arte concettuale del secondo dopoguerra del ‘900 non è stato solo quell’arido universo chiuso ed autorefenziale, che privilegiava la convinzione che ogni “procedimento artistico sia da intendersi prioritariamente come atto mentale” è dato dalla descrizione dei sentimenti e dal nirvana erotico/passionale che la Millet descrive in Jour de souffrance. Questo è il titolo originale del secondo non-romanzo della Millet, pubblicato l’anno scorso a Parigi presso le edition Flammarion! La traduzione italiana appare alquanto attendibile, perché sembra che sia stata seguita dalla stessa Millet, ma il titolo italiano volgarmente tradotto con Gelosia, così come se fosse l’ultimo dei feuilleton della Olimpya Press o della collana Harmony, rispecchia più alcuni frammenti reperibili sin dall’inizio del testo che il tratto riassuntivo del lavoro. Un racconto assoluto, con capitoli fittizi, che in una versione interamente metanarrativa si fa avanti nei cosiddetti “giorni di sofferenza, di afflizione, di supplizio e di pena dell’esposizione”. La Millet, pur passando ad una dimensione narratologica della sua vita intellettuale/erotica/amorosa, non ha smesso di pensare, così come faceva l’art conceptuelle, che “ essa non è altro che riflessione sull’arte, e all’artista importa soprattutto approfondire il concetto stesso di arte”. Ricordiamo che, per il gruppo storico degli artisti concettuali l’opera è dunque un mezzo visivo per comunicare un’idea o un ragionamento sul significato dell’arte: lo scopo è giungere a una definizione dell’arte, mediante l’arte stessa, ma in effetti anche il non-romanzo, dice la Millet lascia fare al destino: “Moralizzatrice, ho sempre diffidato di coloro che vivono la propria vita come un romanzo già scritto nella loro mente, “che se la raccontano” . In compenso, ora so che, se non si teme lo sguardo retrospettivo, chiunque può scoprire che il proprio passato è veramente un romanzo e, quand’anche esso fosse pieno di episodi dolorosi, questa scoperta è una vera gioia”. Pensando al genere della letteratura erotica, apprendiamo da Deleuze o Klossowski, in bei saggi su Sacher-Masoch o sulle Dame Romane, che dall’antichità greca, dalle molleggianti e sensuali liricità di Saffo, la “scrittura carnale” è giunta a esperimenti maturi come Justine, Venere in pelliccia (1870), Le messaline di Vienna (1874), prove edificanti di letteratura classica. Gli scritti della Millet forse non aspirano a diventare delle pietre miliari in questo genere letterario; tuttavia, come studiosa dell’art conceptuelle, e appartenendo a quella formazione che ha confrontato l’universo del fare artistico con la psicoanalisi, la Millet ci consegna i Jours… che risentono della presenza massiccia di Jacques Lacan. L’oggetto di analisi di Jour de souffrance sembra confrontarsi con la penna (degli anni Settanta) di P. Sollers o di M. Pleynet, mentre parlavano di relazioni amorose o di conflitti privati tra coppie e di sentimenti letterari. Anche su questo, ovvero anche sul rapporto letteratura /scrittura/psicoanalisi, storicamente ci sono altre raffinatezze compilative,come quella dell’insegnamento di Otto Rank alla celebre Anaïs Nin (Neuilly-sur-Seine, Parigi 1903 – Los Angeles 1977). Ad ogni modo se pure tra la vita intellettuale della Millet e la formazione della scrittrice statunitense ritroviamo delle sottili affinità, il ruolo della nostra eccellente critica d’arte è tutt’altro! La scrittura di Jour de souffrance pur non approdando agli esperimenti linguistici de La casa dell’incesto (1936), Spia nella casa dell’amore (1954), o ai romanzi che elaborano con fredda eleganza formale motivi personali che nutrono uno sterminato, originale e scandaloso Diario (della Nin ricordiamo i sei volumi pubblicati dal 1966 al 1976, scritti, disse Henry Miller, in “una lingua astratta, precisa, nebulosa e inafferrabile”), trasferisce però l’apice della critica spersonalizzante ed anti-autorialistica degli anni Settanta, alla Barthes ed alla Foucault, in una dimensione “meta-diaristica”, che ricorda ancora lo “scrivere come evasione dal grigiore dell’esistenza”. Il merito della Millet è quello di aver rotto la morale che è depositata intorno al lavoro accademico della critica d’arte, di aver avuto il coraggio di raccontare quanto sia entusiasmante e coinvolgente rivelare le proprie centinaia di “scopate” a latere del lavoro di Commissario alla Biennale di Venezia o di direttrice di una prestigiosa rivista d’arte contemporanea, di aver usato queste stesse confessioni come una efficace strategia mediatica per pervenire ad un successo che con una monografia su Mangold, Ramsden, Andre o Atkinson non avrebbe mai raggiunto. Ma la qualità performativa di questo lavoro sta soprattutto nell’aver confrontato l’esperienza della sofferenza concettuale con quella del male scaturente dalla incertezza, dal tormento e dall’assillo per se stessa e per il suo enigmatico amante e scrittore erotico Jacques! La storia è molto ingenua e molto riservata, ma frattanto molto unanime: germogliata nella banlieu parigina da capi famiglia privi di aspirazioni spirituali e che non erano per niente innamorati, C. accresce fin dall’adolescenza una passione assoluta per la lettura e l’annotazione letteraria. Ben presto si imbatte in una cerchia di giovani intellettuali e poi inizia ad uscire con Claude, direttore di una piccola galleria, con cui debutta nel “sistema” della critica d’arte portando avanti una vita che aveva sempre sognato. Nella bohème parigina, il suo riscatto sociale si accompagna a quello sessuale, in una relazione non privilegiata con Claude, che si trasferisce contemporaneamente su tanti incontri e tante storie. Quando col procedere degli anni l’unione con Claude finisce, C. sembra trovare un nuovo fiore di passioni in Jacques, con il quale per la prima volta percepisce il bisogno di riporre in una discussione indeterminata l’autonomia amorosa e sensuale. Il giorno della sofferenza arriverà quando nello studio di Jacques rintraccia la foto di una donna nuda; per la prima volta C. si sente pervasa dalla forza deturpante e catastrofica di quel timore, di quell’incertezza che genera il sospetto e il dubbio sulla vita dell’altro e della propria! Iniziano così i giorni veri della sofferenza che lambiscono la scomparsa di sé. Qui C., con gli attrezzi del critico d’arte di area concettuale, si mette a scavare nella vita di Jacques, dando adito ad una “archeologia delle passioni”. Esaminando punto per punto i taccuini e le lettere che Jacques riceveva dalle sue relazioni gioviali e giovanili C. scopre inoltre di nutrire in maniera contorta una certa voluttà che si mischia al dolore e alla frustrazione. La situazione e gli anni si presentano come il compimento di una vera e propria performance radicale che si espone e si aziona senza via d’uscita, come un confronto con qualcosa che ha bisogno di essere affrontato, utilizzando solo un inesorabile meccanismo di scavo. Qui la psicoanalisi risulta efficace, quasi necessaria e, dunque, le sedute sul lettino della verità non sono vissute come lo strumento di rimedio della donna della borghesia italiana o francese che legge “Grazia”. Visto che negli anni Settanta Parigi fu un grande laboratorio di ricerca a confronto con la psicanalisi, basta ricordare quanti intellettuali francesi hanno subito un fascino controverso delle metodologie freudiane e post-freudiane, è facile capire quale importanza ha il ruolo della psicanalisi e dello psicanalista nel racconto della Millet. In effetti, l’autrice di saggi come L’arte concettuale come semiotica dell’arte (1970), dichiara espressamente di non sapere quanto le “sedute” siano state determinanti alla “guarigione”, ma sa che da quel momento in poi dentro di se è nata una forma diversa di comprensione dell’esistente amoroso. Al lettore basta concentrarsi sulle conclusioni della Millet: il suo itinerario troverà la luce solo grazie ad una rivalutazione dell’autoanalisi, sterro implacabile della propria vita interiore. È da questa energica indulgenza che nascerà l’obbligo di redigere La vita sessuale di Catherine M., trionfo primario della Millet, collaudo inaugurativo di un sentimento di ricerca della verità razionale e gremitica delle passioni.
Catherine Millet, Gelosia, tr. di M. Basile, Mondadori, Milano, 2009,pp. 217, € 18.50.