Il desiderio aspira a coniugarsi in un pieno amplesso con l’altro, ma al primo tentativo di realizzarlo questo gli sfugge di mano. Nell’arte «engagé» l’alternanza di illusione e disillusione si combattono; l’indefinito susseguirsi di reificazioni proiettive-introiettive, quali tentativi di contenere il fluttuare del desiderio in un corpo impegnato e appagare l’urgenza di matrimonio con un’idea testimonia sempre un’incompletezza: i mondi della relatività estetica o i confini della scelta politica!
Ma la catena dei transfert mimetici, doppi, dell’attività immaginativa, fantasmi mentali, si sostituiscono alla realtà, la fascinazione incantatoria del linguaggio prende il posto dell’altro. È il sopraggiungere d’uno stato di perturbamento che ci avverte che stiamo attraversando un linguaggio artistico (e non) osservando il dispiegarsi dello spettacolo del mondo. Una delle cause principali della malattia artistica è una dieta unilaterale forzata: nutriamo la nostra sensibilità estetica con un solo tipo di modus operandi. L’arte si ammala, si potrebbe dire, quando basa le sue costruzioni espressive su di un solo modello, che però viene trattato come un caso esemplare, cioè come un caso che può rappresentare tutti i modus operandi possibili, compreso quello politico. Una dieta monolitica e ideologicamente attrezzata (che vuole essere la soluzione di un programma di stili di sinistra, di destra, di centro-destra, di centro-sinistra, di pensiero unico e variabile con attenuante di aspirazione liberal al potere, pertanto, senza che ce ne accorgiamo), conduce ad un radicale impoverimento dell’immaginazione e della libertà espressiva. L’idea che l’arte sia tutto un sogno non è nuova, e non sarò sicuramente il primo né l’ultimo, ad aver elaborato il concetto di critica al blocco artistico totale (e che può tutto), frutto solo di un’illusione o di un sogno fatto a occhi aperti; così come non sarò certo il primo a considerare con relatività il discorso politico di un artista impegnato e quello di un politico che invece adotta simpatie e metodi espressivi legati alla farsa. In questi giorni si parla spesso di arte engagé, e sembra che questa esigenza dell’artista o del filosofo sia in contrapposizione alla materialità della vita di ogni giorno. L’arte del teatro cosiddetto engagé risveglia nei più un desiderio di ritrovare un senso della vita politica che sfugga al giornaliero. Inoltre, il rinascere delle tensioni internazionali, dovute in parte a visioni contrastanti del mondo, basate su cosmologie ideologiche, ci obbliga a rivedere il ruolo delle espressioni artistiche nella vita di tutti i giorni. Vorrei spartire con voi i miei pensieri di come una visione artistica dell’espressione teatrale, alla Giorgio Gaber (o meglio alla Signor G.), può essere rilevante ad una visione più ampia delle attività politiche dell’umanità. I punti di vista che esporrò non saranno forse condivisi né dai relativisti dell’engagé né dai relazionisti o dagli ortodossi, ma spero peraltro che anche alcuni non artisti e non politici vedano, nelle idee esposte, un tentativo serio di riportare problematiche politiche aperte nell’ambito del pensiero artistico-costruttivo. Sin dai primi tentativi di darsi una visione del mondo, numerose culture teatrali e cantautorali, compresa la nostra, hanno cercato il mainstream nella trascendenza dei movimenti politico-sociali degli anni ‘60, in un mondo cioè che va oltre all’immediato, al materiale e al formale dell’arte: il desiderio di Tenco di spingersi oltre l’esistenzialismo, la prospettiva anarcoide di De Andrè, l’irreprensibile nichilismo di Brunori Sas, senza soluzione ma dalla molta decadenza progressista e via di seguito. Il pensiero di una cifra poetica che incarna una trascendenza si associa facilmente all’idea di assoluto: questo modello ce l’ha ricordato, fino all’inverosimile, Franco Battiato. Le posizioni artistiche basate sull’assoluto estetico hanno dato origine per lo più ad atteggiamenti che vengono chiamati, al giorno d’oggi, fondamentalismi. Spesso, anzi spessissimo, le posizioni fondamentaliste vanno mano nella mano con atteggiamenti di natura totalitaria ed univoca. Il pericolo di questo processo, che è in antitesi alla civiltà del libero cantautorato (alla Signor G.), è attualissimo e vede schierati gli amici della sedicente sinistra nella totalità del documentario di Milani (Io noi e Gaber, su Rai3-2023) e quelli che invece lo vorrebbero strappare al sinistrismo, speculano nelle gelosie di destra al potere riportandolo alle scelte della moglie (Ombretta Colli) che ha flirtato con la destra! Il desiderio di “artisticizzare l’artisticità” (scusate il disguido) è molto comprensibile, e va visto come un’esigenza fondamentale della vita artistica, piuttosto che come un ritorno ad un semplice oscurantismo ideologico. La ricerca di “artisticità engagé” tuttavia non va, proprio per questo, confusa con un ritorno all’ideologia artistica di estrema destra e di estrema sinistra. Il problema, dunque, è come dare allo stesso tempo spazio all’esigenza di Gaber senza cadere nel fondamentalismo opportunista di Jovanotti, che parla a sproposito e in maniera inadeguata del Signor G., così come ne parlano a sproposito viziati giornalisti di destra, schierati con la stampa strumentale berlusconiana! La ricerca di una artisticità più forte e adatta al mondo moderno e post-industriale richiede quindi uno sforzo di apertura concettuale non indifferente. Forse a proposito di cani sciolti richiede i giochi di parole di Alessandro Bergonzoni: «I disobbedienti non han capo ma han la coda (di chi li segue); sembran “dei” decapitati o detestati; credon che il capo sia solo la loro testa e non chi li comanda, san male dire bene dire stordire inorridire predire mai obbedire. Aman la potenza non il potere, l’energia della scelta non il dominio di chi li ordina…» (in Nessi, 2013). Giorgio Gaber, insieme a Sandro Luporini, ha elaborato un sistema artistico aperto, fondato sul concetto di assoluta necessità del cantautorato teatrale. Questa scelta poetica strutturata in modo organico sottende i principali problemi di praticabilità politica della scena e della voce. Nella Summa del Teatro-Canzone, il poliartista milanese conduce la deduzione politica seguendo un metodo di tipo espanso, performatico, che si scandisce secondo strette relazioni tra corpo-sudato e tensione comico-drammatica. Gaber elabora una verve trobadorica della sostanza-melica-engagé unica: esistono molte mondanità create, che si manifestano attraverso infiniti attributi. Ma, per il nostro discorso, è appunto questo che importa: non solo e non tanto la conclusione (la verità) che Gaber raggiunge ed enuncia, quanto il fatto che questa verità non sia disgiunta dal quadro enunciativo in cui si situa e che diventa, per lo spettatore, decisivo per la determinazione del significato del tutto. È in questo quadro che si riconosce la qualità cantautorale del discorso, ma l’apprezzamento delle sue conclusioni dipende dal coinvolgimento sentimentale ed emotivo, generato dalla lettura assai più che dalla dovizia, dalla consequenzialità, dalla cogenza degli argomenti addotti e dalla logica che li collega. Il cantautore ci fa capire (sentire) che la sua verità è comprensibile e condivisibile e che, se la nostra esperienza umana e intellettuale ci ha portato a conclusioni diverse, nondimeno possono apparire legittime le sue. Egli non mira a convincerci, protesta semplicemente l’autenticità della sua esperienza e ci chiama a partecipare. È stato affermato molte volte che l’attore-cantante si occupa dell’individuale, del particolare, del concreto; mentre l’estetologo, il politico, aspira al generale se non all’universale. Ma ciò non porta alla conclusione, semplicemente, che la verità del cantautore è appunto e soltanto quella dell’individuale e del cane sciolto. Infatti, la sua verità non sta solo nei termini logici del suo discorso, ma nei modi che egli mette in atto e che ci consentono di esserne partecipi. Sta nella sua capacità di coinvolgerci, nell’immedesimazione che provoca e che sospende il nostro giudizio politico o che gli consente di superare se stesso. Sta nel farci sentire ciò che afferma. Se egli ci riesce, infatti, vuol dire che ha saputo toccare le corde giuste – del cuore, della memoria, dell’intelletto – e indirizzare la nostra percezione verso quei nodi del nostro essere che il pensiero razionale fa fatica a penetrare. In questo consiste la conoscenza che possiamo dire specifica del fatto artistico; conoscenza che non si dà in termini analitici, ma che porta a una maggiore comprensione della realtà. Le parole di Luporini recitate dal Signor G. ci ricordano che la nostra razionalità è solo una parte di noi e, se è forma di conoscenza positiva e progressiva, e non solo regressiva e consolatoria, è perché il suo farci partecipare è un mostrarci costantemente e, quindi, un darci la possibilità di cogliere quali sono le vie che collegano la mente ed il cuore, la coscienza e l’inconscio politico. Il teatro, la canzone, il canzoniere, ci mostrano – se sanno mostrarcela – la complessità e la contraddittorietà del nostro essere, la sua piccolezza di fronte all’infinità di un reale che, tuttavia, non ci stanchiamo di indagare criticamente alla ricerca delle verità ultime. Non sarà grazie alla canzone che le scopriremo, ma essa meriterà tuttavia l’attributo di critica, quando se ne metta in cerca esplicitamente; e, quanto al suo valore di conoscenza, esso si rivelerà tale quanto più “canzone e teatro” sappiano essere, semplicemente, se stesse; perché il suo problema, diceva Gaber, «è di far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano». I cani sciolti, interpreti e autori di se stessi, mettono in piazza un drammatico esempio di “crisi divisiva”: traducendo in un italiano gaddiano, e forse fortiniano (vedi I Cani di Sinai del ‘78), la bohemian rhapsody del Cabaret Voltaire, ma anche le parole serpeggianti e libere della melodia del signor G. su I Cani sciolti. Il lavoro di ricerca dell’eredità teatrale di Giorgio Gaber può oggi considerarsi concluso? Qualche codice disperso verrà forse rintracciato col tempo; forse a breve verrà restituito all’orda dei maverick il seguente manoscritto versato a mano: «[Parlato] L’uomo è un animale socievole; quando incontra qualcuno che la pensa come lui, scodinzola». Commentando il passo 1253a della Politica di Aristotele, possiamo ricordare che: i soggetti umani per loro natura sono degli “animali politici” e chi vive fuori dalla comunità civile, per loro natura e non per qualche caso, o sono abietti o superiori, desiderosi di ostilità in quanto isolati come strumenti tra gli strumenti. Perciò, che i soggetti umani siano esseri più socievoli di qualunque ape e di qualunque animale da gregge, è chiaro. Perché l’ambiente naturale non fa niente senza l’intelletto e i soggetti umani sono gli unici esseri ad avere l’espressione. La voce umana è manifestazione di dolore e di piacere, perciò la posseggono anche gli altri animali, invece la parola serve a comunicare ciò che è utile e ciò che è nocivo, e quindi anche ciò che è giusto e ciò che è ingiusto; questo, infatti, è proprio della persona umana rispetto agli altri animali, l’avere egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e delle altre cose; e l’avere in comune tutto questo costituisce la famiglia e lo stato. Chi non è in grado di fare parte di una comunità civile, o non ha bisogno di nulla perché basta a se stesso, non è parte dello stato. Quindi o è uno scimmione o è un dio. «Da soli non si può far niente, non è che io non dia valore all’individuo, ma credo che un momento collettivo sia un bisogno dell’uomo per sentirsi vivo; per crescere e imparare bisogna essere in molti e non si può contare sui cani sciolti».
Oggi è necessario pensare la libertà e ripensare la politica. Il possibile accessibile e permesso rende impotenti politicamente, nella maggior parte dei casi: la via sta nel ponderare l’impossibile. È per ciò stesso necessario continuare a comunicare, sfidando la domanda sottilmente posta da questo brano di Luporini e Gaber: “con chi parlano i cani sciolti?”, riconoscendo che la principale difficoltà è nel parlarsi. Le possibilità di creare libertà sono connesse alla parola condivisa, magari conflittualmente. In questo sta, secondo Gaber, il rapporto tra estetica ed etica della scrittura cantata e recitata. Ma anche viene da aggiungere, della creazione artistica e dell’innovazione sociale tout court; non per assimilarle, ma per riconoscere le comuni dinamiche che sottendono alla possibilità degli esseri umani di vivere la vita come un progetto e un’invenzione in grado di accettare anche i cani sciolti. È qui che si situa il valore decisivo del rapporto tra estetica e vita individuale e sociale: nella possibilità di portare la ricerca dell’espressione di sé oltre il consueto e l’esistente, verso l’inedito e la creazione di quello che prima non c’era. Nel rapporto di tensione tra regole e libertà, tra istituito e istituente, la possibilità di estensione di sé e di creazione dell’innovazione, la possibilità di esprimere esperienze estetiche e creative, è decisiva per la progettualità sociale e la democrazia. Emerge, quindi, una responsabilità ad esercitare l’immaginazione e l’estetica della creazione come imperativo etico per la democrazia. In proposito Gaber, con questo testo mette in tensione la capacità di fare vuoto dentro di sé e le possibilità dell’immaginazione. La canzone-teatro non è una cosa che deve essere costruita, le cose arrivano se sei capace di scrutare nel buio, di entrare dalla vita materiale, di essere una spugna, devi farti attraversare. «Da soli non si può far niente, è giusto trovare una propria appartenenza, un fondersi di idee e intenzioni per distruggere un mondo di corruzioni; per poter ricominciare ci voglion nuovi volti e non si può contare sui cani sciolti». Lo splendore del segreto delle cose non può essere catturato, così come non abbiamo accesso alla completezza che pure siamo in grado di concepire. Possiamo farci penetrare dalla luminosità goccia dopo goccia e nel momento in cui ci parrà di essere identificati e accolti dalle cose stesse, allora insieme ad esse potremo forse cantarne qualche immagine; potremo forse essere dalle cose stesse salmodiati. Nello Zohar, il libro dello splendore, il cuore della mistica ebraica, è indicata la via per andare al di là dell’apprendimento: “Il mio occhio ha visto ciò che non avevo visto mai e mi sono levato come non avrei mai creduto”. Andare al di là della conoscenza è tutt’altro che un cammino a tentoni nel buio, o un consegnarsi a qualche forma di magia. Il segreto delle cose è luce nelle sue inesauribili rifrazioni di colore. È soprattutto un atto spirituale che mantiene sull’orlo della sventura mentre si continua a cercare, non potendo smettere di farlo. Dipinge, scrive, scolpisce, cerca, chi non può far altro che farsi percorrere dall’infinito delle cose e dalla loro prorompente invasione, prestando se stessi a distillare il mondo e a filare con esso. Chi accoglie la propria finitudine, non come una fonte di ansia e disperazione, che porterebbe al delirio di onnipotenza, ma che si sa riconoscere transeunte, errante e passeggero, e per questo suo essere feribile si dissolve nei mondi che incontra per farsi ad essi e poterli, alfine, raccontare col colore, con la parola, con il suono, con la voce cantata del cane sciolto. Quel racconto ci avrà così restituito una luce nel caos del reale e ci avrà fatto cogliere quello che da soli non avremmo visto, pur essendo stato sempre lì. In fondo avremo così avuto la possibilità di comprendere che il solo modo per vivere il tempo è partecipare del suo scorrere o, magari, della sua eterna fissità. «Da soli non si può far niente bisogna tentare una qualche aggregazione, la sento come l’unica salvezza, un’unione che dia una sicurezza; ci dobbiamo ritrovare per non essere travolti e non si può contare sui cani sciolti. Ma i cani sciolti un po’ individualisti, un po’ anarcoidi, sono gli ultimi utopisti, purtroppo non si accontentano delle elezioni e dei partiti e delle coalizioni, ne hanno pieni i coglioni. Non ce la fanno a delegare se non si sentono coinvolti, sono proprio allergici al potere i cani sciolti». La canzone I cani sciolti si trova nell’album Io come persona (live), divulgata nel 1993 per Carosello Records, RTI. Anche quando si interroga sull’isolamento “della propria parte”, si capisce che la storia del “Cane sciolto” non lo è mai fino in fondo. Negli anni ‘70, quelli che abbiamo ridotto ad anni bui e bollati di terrorismo e anni di piombo, i cantautori erano considerati sapienti, perché portavano una verità trasmessa al di là dell’industria culturale. Si credeva, infatti, che scrivessero ispirati dall’oltrepolitica dei maverick: quasi sotto dettatura. La narrazione mitica dello chansonnier svelava l’origine critica ed arcana delle cose (si pensi a De Gregori e a “Quattro cani … per strada” (Rimmel, 1975). Altra cosa è la politica. Le domande possono essere le stesse, ma le risposte vengono cercate attraverso un mezzo umano differenziato dalla sua resa, seppur limitato: la ragione dello strumento. Innanzitutto, la canzone-teatro è un’arte e la politica era presentata dagli antichi come una scienza. La poesia, come la danza, la musica, la pittura o la scultura si compone in un mondo di rappresentazioni e di immagini. Essa, come tutte le arti, non esiste se non può essere raffigurata, se non richiama alla mente suoni, colori e emozioni. La politica, invece, comincia proprio là dove finisce l’astratto. Il pensiero politico non ha nulla a che fare con le rappresentazioni, non necessita di immagini, ma di concetti, riproduzioni (direbbe W. Benjamin 1936), forme, progetti e piani da esercitare e da realizzare. Credo inoltre che anche se tutto ciò che la canzone raffigura è la realtà, non è altrettanto vero che il raggiungimento della verità è il fine ultimo del cantautore. Se infatti egli compone alcuni versi sui cani sciolti, il suo scopo non è quello che gli uomini riescano, attraverso le sue rime, a immaginare esattamente i cani sciolti che egli aveva in mente. Il suo vero scopo è che, per mezzo di emozioni e sensazioni, le sue parole richiamino alla mente del lettore i maverick di cui parla Gaber col suo immaginario e coi suoi ricordi. Non è importante l’oggetto a cui l’autore si riferisce al momento della composizione, bensì ciò che l’opera richiama alla mente di ciascun uomo al momento della lettura. Questo permette alla canzone di rimanere immortale nel tempo. Uno degli elementi fondamentali della politica, invece, è proprio la razionalità del criterio che si propone di usare e di applicare. Certamente lo scopo del politico è quello di giungere a conclusioni accettabili e condivisibili da tutti, ma questo non è affatto semplice; anzi, il più delle volte è impossibile. Per questo motivo non si può affermare che essa sia una scienza esatta e oggettiva. Entrambe, canzone e politica, guardano, quindi, i mondi e i loro campi di applicazione con meraviglia, stupore e differenza di materializzazione. Sembrano appartenere a due territori molto diversi, ma quella che per l’artista è l’immagine originaria della sua riproduzione, che dimora nella sua anima e aspetta di uscire allo scoperto, ha parecchie caratteristiche in comune con i concetti della politica rivelata. Anche essa è, infatti, priva di concretezza perché ancora incompiuta. Quello che per Gaber, e soprattutto per Luporini, prende il nome di immagine, per il politico ha un altro nome: ideologia. Mi sono bastati pochi minuti di visione per capire che il docu-film di Milani ha un pregio, che mi piace definire rarità: è estremisticamente sincero e ambiguo. Nei suoi confronti, prima di tutto, e verso gli altri. Non riesce a fingere, soprattutto quando si parla delle sue emozioni e delle sue formazioni, in cui si racconta in tutto e nonostante tutto attraverso cantautori e artisti affermati come Domenico Modugno e Giorgio Gaber. Credo che in una contemporaneità così delirante come la nostra che va veloce e ci mette davanti a delle scelte, spesso di convenienza e di coltivazione del cinismo che si spinge oltre “destra” e “sinistra” (come diceva Gaber), essere coerenti con la propria cifra cinematografica e visuale non è sempre facilissimo. È chi ci riesce è perché crede nell’empatia col soggetto, la sceneggiatura, la direzione della fotografia, la narrazione e soprattutto l’oggetto storico del film che, in questo caso, sarebbe Giorgio Gaber. Detto questo e visto Io noi e Gaber (2023) possiamo, allora, scoprire che non è il regista ad andare dritto per la sua strada, ma piuttosto l’anima e la risorsa del teatro-canzone dello stesso autore-interprete! Mi piace immaginare quasi come un outsider, perché dentro l’aura un po dolce e un pò ruvida si nasconde un artista totale che ha saputo guardarsi e guardarci dentro, anche con un pò di “astrazione politica”, e che sapeva riconoscere di essere cresciuto insieme a chi lo ascoltava, lo interpretava, lo criticava, lo osannava e lo sbeffeggiava o fischiava! Soggettivo con molte ascendenze e discendenze, cane sciolto della prima ora, variabile indipendente che mette in crisi gli strumenti consueti che è capace di produrre: Giorgio Gaberščik! Meglio conosciuto come Giorgio Gaber: cantautore, drammaturgo, attore, cabarettista, chitarrista e regista teatrale. Sull’inutilità del cantautorato per la politica, esiste uno sconfinato, permanente dibattito culturale. La purezza, infatti, indica innanzitutto lo sforzo teorico che si indirizza alla comprensione dei meccanismi alla base dei fenomeni di comunicazione sociale e delle loro astrazioni artistiche, prescindendo dalla finalità di una utilizzazione pratica. In questo senso, pura è senz’altro l’originarietà della ricerca di Gaber, che eredita dagli antichi chansonnier e trobadores il compito di rispondere a domande sull’origine e il funzionamento della canzone-teatro e del teatro-canzone. Altrettanto puri sono, senz’altro, molti campi dell’attraversamento spettacolare gaberiano, nei quali lo studio della proprietà dei numeri dell’esistenza e delle passioni politiche ed autobiografiche, dà luogo ad osservazioni oggettive sulla storia di una certa esperienza civile. Si chiama “teatro canzone” ed è una formula di teatro, nonostante d’altra parte abbia già i suoi illustri predecessori nel Vaudeville, negli effetti di estraniamento delle pièce di Bertolt Brecht e persino nelle operette e nei musical. Si tratta perlopiù di spettacoli, che seguono uno schema particolare, un genere espressivo legato alla teatralità, alla parola e alla musica, mentre la sua struttura è costituita da un’alternanza di canzoni e di monologhi o più precisamente di parti cantate e recitate. Io noi e Gaber traccia un ritratto intimo e obliquo di Giorgio Gaber, che include ad un tempo la sua storia personale e un potere contrastato e violento di voci di artisti, giornalisti e intellettuali che lo hanno vissuto e che hanno cercato di interpretarlo. Un viaggio tortuoso che attraversa molte fasi della carriera di Gaber: dagli esordi nei locali milanesi, il sodalizio artistico con Jannacci, i duetti con Mina e le canzoni con Maria Monti. Dagli anni della popolarità televisiva, con l’invenzione originaria, il sodalizio davvero toccante con Luporini, il significato e l’evidenziatura del teatro-canzone, dimostrazione costitutiva del suo impegno politico e culturale. La scenografia e la figura-sfondo del docu-film è costituita dal Teatro Lirico di Milano. Milani è stato aiuto regista di Moretti, Monicelli e Luchetti e come altro film per la televisione ha realizzato: Volare. La grande storia di Domenico Modugno (miniserie di due puntate interpretata da Giuseppe Fiorello: 2013). Riccardo Milani durante la presentazione del 22 ottobre scorso, alla festa del Cinema di Roma, ha dichiarato che “Gaber ci serve ancora e ci serve adesso”. Ma cosa significa veramente questa affermazione? Quale senso politico oggi può avere, per gli outsider della Storia Italiana degli anni ‘60 e ‘70? Quale emozione scuote la mitobiografia di un cane sciolto della società dello spettacolo come Gaber e forse anche di un «comunista non pentito» come Sandro Luporini? Monologhi e canzoni esortano a riscoprire quel percorso narrativo con cui Gaber e Luporini nel 1973 affrontavano i temi universali del disagio sociale e generazionale, puntando l’attenzione sull’essere associabile e dissociabile del soggetto politico contemporaneo. Pare che la persona di vita attraversi una fase un po’ anomala dove a volte il proprio corpo è assai distante da certi slanci ideali. Da una parte è pronto ai balzi utopici che si fermano ai desideri primigeni, pronti a soddisfare il proprio tornaconto, dall’altra tenuto a terra dal proprio egoismo e dai finti bisogni materiali: temi e contenuti quanto mai attuali in questo tempo segnato dal cinismo dei molti, che si addensano nelle false file dell’avanguardia e del progressismo liquefatto e funzionale alla pianificazione liberista.
A volte, Kurt Weill controbatteva l’essenza della propria musica a quella dei versi di Bert Brecht: “Avevo un intreccio realistico, sicché dovevo contrapporgli la musica, poiché non ritengo che la musica sia capace di creare effetti realistici. Pertanto, l’azione era intenzionalmente portata a un punto in cui non c’era altra possibilità che cantare” (J. Schebera, Kurt Weill, Rowohlt Taschenbuch Verlag, 1957, pp. 111-112.). Il tragediografo con la parodia irriverente della società borghese, il compositore con le consonanze aspre, trasportano caos in ciò che è usuale. Ed è così che il teatro epico di Brecht e la musica di Weill si stagliano come le carte di un collage. Gaber e Luporini sottolineano una certa incapacità di far convergere i progetti di emancipazione sociale con il vivere quotidiano, il personale con il politico. Il “signor G” vive, nello stesso momento, la voglia di essere una realtà oggettiva e l’impossibilità di esistere, di viverla e di aspirare a qualcosa che si può concretamente toccare con mano. È forte, molto forte lo slancio immaginario. La ricerca dell’interezza, l’intralcio delle bautte imposte dalle convenzioni sociali, la disfatta dell’innocenza di fronte ai macrotemi della politica e dell’impegno, la possibilità di impiego a gestire l’autovalore maverick, sono tutti soggetti che Giorgio Gaber aveva saputo proporre con insuperabile irrisione oltre mezzo secolo fa, ma che continuano a essere attuali, anche agli occhi dei contemporanei. Scritti teorici, appunti sulla metodologia di lavoro, osservazioni e riflessioni sulle persone, sugli eventi storici, sul potere, sulle arti – non ultima la musica; e poi i diari, minuziosi quanto preziosi, tutto partecipa e fa parte della messa in scena gaberiana. Gaber sembra essere nato già autore e regista: per i cani sciolti, che lo ammirano incondizionatamente, inventa nuovi nomi (quasi fossero dei suoi personaggi), li esorta ad esprimere le proprie potenzialità artistiche, ne vaglia le doti. Ne farà tesoro per scrivere personalmente le partiture delle prime ballate e canzoni. La musica è anche il mezzo attraverso il quale, seppure indirettamente, Gaber giunge alla forma del dramma didattico. Gaber sente la necessità di un altro genere di musica. Il suo «teatro-canzone» prevede la disarticolazione degli elementi e, quindi, una musica che abbia un valore proprio, che commenti e non illustri l’auto/azione scenica. Per Gaber, anche l’opera deve adottare i metodi del teatro-canzone; ciò comporta la radicale separazione dei propri elementi, risolvendo così, una volta per sempre, la lotta per il primato fra parola, musica, recitazione e confronto col cane sciolto. La musica nel teatro di Gaber e nell’opera luporiniana, come il testo e le immagini, rinuncia a creare illusioni e crea la possibilità di discutere; essa mette lo spettatore in grado non di provare emozioni, bensì di discutere, non di identificarsi, ma di prendere posizione. La trasformazione, alla quale Gaber dà continuità brechtiana, non è solamente di carattere formale, ma riconsidera totalmente il teatro, che assume, così, una funzione sociale diretta. La vecchia opera – sostiene Brecht – esclude assolutamente ogni discussione sul proprio contenuto, si smercia come svago serale, solenne e dedicato alle illusioni. L’opera-canzone-teatro, invece, comporta già una funzione di modificazione della società, perché attacca la società che ha bisogno di opere di quel genere. Anche il ruolo del cantante, nel teatro e nell’opera del signor G., è oggetto di non secondaria attenzione. Per quanto riguarda la musicalità, egli non la seguirà ciecamente: esiste un modo di «parlare contro la musica» (Brecht), che può ottenere grandi effetti, resi possibili da una misura ostinata, svincolata e incorruttibile dalla musica e dal ritmo. Se poi sfocia nell’armonia, allora dev’essere un avvenimento: per accentuarlo, l’attore potrà scoprire il piacere che il canto gli procura.