Mi rendo conto dell’attaccamento che provo per l’immagine, per la mia immagine solo nei momenti in cui mi trovo nella condizione di non poter fotografare.
Nel mio caso non si tratta di scattare un colore, ma di deporre qui, sulla superficie bianca della carta da stampa, una voglia continua di scattare una fotografia e di imprimere.
Vivo questo momento in modo affannoso.
Quel che più mi interessa, quel che dunque mi riguarda maggiormente è il momento in cui, a partire da un “niente”, provocato dallo schermo bianco dell’obiettivo, si manifesta un’intenzione di ripresa che mi ferma e mi interroga, mi sovviene, mi blocca la voce, mi dà l’impressione di essere castrato, anzi forse lo sono e chi s’è incaricato di offrirmi questo difetto non è consapevole del suo delitto!
Quel momento, malinconicamente essenziale, sembra dirmi semplicemente che“ho fatto bene ad osservare quel corpo, ho fatto bene a tirare le somme dell’osservazione, ho fatto bene ad essere pronto dinanzi a quell’avvenimento, a quell’omicidio”. Prima non c’era nulla, ora c’è … che c’è … è proprio quel che voglio quando fotografo. Il tempo del fare fotografico mi trascina fuori del tempo cronologico o mi lascia perpetrare nei segni – così impercettibili di Crono – che non posso fare a meno di organizzarmi lo sguardo. Non mi accorgo più del tempo che passa, sono dentro gli oggetti della fotografia. Così ho cominciato a fotografare sul serio da quando sono stato capace di “perdere” il mio tempo nella fotografia.
Ho sollevato la stampa fotografica che,da orizzontale, si è trovata verticale … forse mi ero già scusato abbastanza di fotografare a ripetizione. Non riesco a fermarmi, sto shootingando a ripetizione infinita …
Non ho mai cominciato un ciclo fotografico senza avere paura. Questa emozione mi riporta alla stretta intimità di quanto faccio. Ho l’impressione di vivere in un ritmo profondo che va da una temperatura fredda (quella della fotografia arterata) a una temperatura calda (quella del mio scatto, della mia tensione, del mio sudore,del mio unico tiro). Il corpo si abbandona e si diluisce con “l’evasione” delle calorie. Il fotogramma, la superficie dello schermo che sta di fronte, qui davanti a me, sembra dirmi … ancora. E allora capita che dica si … che icona.
La sera, alla fine di questa prima giornata in camera oscura, lascio qui le stampe fotografiche.
Il loro stato incompiuto indica e presuppone un ritorno all’immagine, già delineata ma ancora insoddisfacente per quanto riguarda il bianco e nero: prendo appuntamento con il tempo che verrà. Questo proprio di fronte, cerco di rimettermi nel suo movimento, nella sequenza cinematica, fare tutt’uno con il compimento della schermata, dissolvermi in questa intenzione. Dunque guardo … Questa cosa vagamente inquadrata s’indirizza proprio a me? Una specie di estrema curiosità come se l’avesse fotografata un altro per farmi piacere. Poi lascio che quell’inquadratura, là sulla destra, o questa parte, qui sulla sinistra venga a disturbare il mio sguardo.
Allora riprendo il mio lavoro … fotografo con la macchinetta digitale: cerco un compromesso con l’algoritmo che porto su me stesso e sulla forma del mio sguardo. Fuori dall’obiettivo, il ritmo di una vita. La questione è cominciare in bellezza. Fotografo perché la cosa sia la più bella possibile, perché questa cosa sostenga il mio sguardo e il vostro, per incupirmi e mantenere la funzione irraggiungibile del bello. Una funzione che, come ognuno sa, ha qualcosa a che vedere con la riproduzione. E così,quello che è ammaliante suggerisce la riproduzione,rammenta solo il facsimile, estende solo la perversione dell’immagine. Per questo mi prende un male folle, un’immensa difficoltà … accettare che uno shooting si sostenga soltanto sul corpo di lei che lo traccia, di lei che lo simula. Ho quasi l’impressione che il fotografo che vi parla sia ancora spaventato dall’incredibile sorte riservata al naturale. Per guardare e chiedere attenzione al mondo, oggi è necessario che ci si rivolga all’immagine del mondo; perché Lei, l’immagine, la Gioconda, è tra il pubblico, e ascolta, anzi percepisce in silenzio. Oggi dunque mi rivolgerò al mondo della sua Immagine, alla sua superficialità, al suo ready-made retinico; mi rivolgerò alla simulazione dell’intimo del mondo, al suo far finta di soffrire nell’anima. Parlo infatti da fotografo, da figlio dell’arte moderna che parla alla psiche.
Se oso riconoscermi figlio dell’arte moderna, se oso guardare in questo modo, è in nome di ciò che avvenne qui cinque secoli fa, e che pure è indimenticabile per la psiche dell’immagine del mondo, e da inseguire sempre con gioia. Al margine più esterno dell’immagine, i suoi sentieri raggiungono la lunghezza massima. Là fuori si ha la sensazione di aver preso la strada per il centro, di venire spediti eternamente in tondo e di non sapere a che cosa ciò porterà. Questi tratti di strada sono stancanti e frustranti. Sollevano interrogativi che finora non avevano nessuna importanza. Ad esempio,la domanda sul significato e la mancanza di significato. Il cammino nell’immagine ci porta ai limiti in cui le belle icone e i pensieri positivi non aiutano più. Morte, malattia, separazione e fallimento sono legati a situazioni in cui spesso tacere è meglio che guardare, chiedere meglio che rispondere. Quando non sono toccato direttamente, cerco di tenermi il più possibile fuori da sguardi del genere. Talvolta questo tenersi lontano assume anche tratti irreali.
Trenta o trentacinque anni fa, quando ho fatto – anch’io – l’esperienza del Medialismo, dall’immagine figurativa all’immagine fotografica astratta, mi ricordo … Quando ho rifatto qualche tempo fa questo passaggio nel senso inverso … ho provato sentimenti assai curiosi. Posso dire che pure questo è altrettanto pericoloso. Così mi capita talvolta di augurarmi la commissione da parte di un amico poeta o scrittore, d’invocare qualcuno per cui fotografare …
La pratica della fotografia, soprattutto la sperimentazione del riscontro fotografico, è segnato dalla colpa di ammazzare la voce e quindi esser diretto alla mescolanza cinematografica. L’attività fotografica mi rende dipendente dalla mistica delle corrispondenze, per mezzo suo gareggio con la parola e mio malgrado scopro che sono segnato dall’esperienza cinematografica e dalla lettera al punto che non devo provare l’immagine che mi definisce ma la sequenza che organizza il movimento del suono e delle figure in movimento.
Si … certo, la fotografia moderna rode inesorabilmente la rappresentazione del suono e del movimento macchina … se rimane lì ferma nel museo senza darsi come cinema. Per mezzo suo sono il motivo di me stesso e del suo stile che fanno dispendio.
Non ho potuto vivere quanto qui analizzo senza sentirmi colpevole di non aver azionato il movimento macchina, poiché il fatto stesso di comprenderlo come un limite ravviva, curioso paradosso, il bisogno di rappresentare non l’icona ma il dialogo sull’immagine parlante.
Sullo sfondo dello schermo non c’è niente, meno il perché del bing-bang delle immagini nell’era dello spectaculum.
Credo dunque in quel che faccio. In altre parole le immagini della mia sequenza si accrescono con la diminuzione di un certo piano americano, di una certa profondità di campo.
Con il bianco e nero stabilisco la somiglianza con l’organico, cerco una mia rappresentazione autobiografica. Uno strato di colore, poi un altro, un colpo di ripresa, poi un altro, un colpo di pistola e poi un altro sono altrettanto passi verso il paesaggio del suono,precisazione di un momento, di un momento del fare fotografico che spero, ordinatamente, mi descriva, mi evidenzi. Questo istante fotografico implica la generosità di un saper fare: non si tratta di saper fotografare il già fotografato. Da qui i corpi senza fine di sfondo nella forma che non parla o di forma nello sfondo che non grida, che non riesce ad urlare. Come materia il corpo riunisce i frammenti della mia immagine, sente, pensa, compone questa immagine e mi rimanda la visibile coesione della sequenza, di un dispendio invisibile che si fa fotogramma, foto-grammatica più dei ventiquattro secondi e più delle necessità di svolgimento di una pellicola.
Con il colore extrafine, l’algoritmo è nullo. Da qui madre, padre e figlio del mio algoritmo, della mia fuzzy-logic, della mia teoria sfumata di matematica pura dell’immagine.
In fotografia digitale, come nell’istante della sequenza, la conoscenza è inutile. Viene vissuta la temporalità. Conta soltanto il dispendio dei fotogrammi che, fra l’algoritmo e la sua rappresentazione, ricrea l’uno e l’altro matematico, l’uno e l’altro sonoro. La fotografia è qui l’intenzione postverbale del linguaggio. Quel che parla quando fotografo, o quando ho già fotografato e messo in movimento, quando ho già percepito e ho montato lì sul suono di un’idea, sul fraseggio di un distico, sulla verbalizzazione poetica di una dimensione rumorosa. In questa circolazione la voce della parola capta il vostro orecchio e l’ascolto dirige la percezione visiva,anzitutto capta il vostro sguardo cinesico. Fotografo per parlarvi,per riprendere nei vostri sguardi quanto perdo nella sequenza. La fotografia non mi rappresenta più del suono della parola, poiché la corrispondenza percettiva, tra suono e parola, riempie, mi rende presente nella rappresentazione …
Ma chi ha cominciato? Così faccio fotografie, al plurale faccio fotografie, per nascondermi e non vedere, per spiarmi e farmi assistere in questo distico poetico. E questo non ha nulla più a che vedere con l’immagine, con qualcuno che fa solo immagini.
Talvolta incontro nelle corrispondenze effetti di colore e riverberi di sensibilità verbale che evocano modi di riprendere la parsimonia di un videoclip. Lascio correre. Voglio conoscere la qualità dei rapporti di piacere che gli altri fotografi hanno con la canzone, con la poesia. Questo lavoro di fotografo che m’impegna per un certo tempo a vivere, a conoscere il rapporto di un altro con il colore è un esercizio fondamentale per acquisire un algoritmo originale che contiene tutto. In breve … sono il soggetto impressionabile di tutti gli effetti di colore e di suono … allora, allora soltanto, il mio gesto tocca lo shooting con imperfetta verità.
Può darsi che la fotografia, con la caducità dello scatto di una certa rappresentazione naturalistica, sia di fronte alla scoperta della sua ragione profonda … Un’etica e una pratica del senso al di là del senso che si annuncia e fa spettacolo.
… Attività complessa e difficile, la fotografia chiede a colui che la pratica di essere sicuro del suo desiderio di creare, cioè di saper vivere, con tutto quello che la parola e la sua totalità implicano.
Come capite, nessuno ha mai detto che cosa faceva sì che …