A distanza di mesi l’attenzione sulla Biennale di Venezia pare essersi dissolta. Per tenerla viva ripubblichiamo online l’articolo di Maria Letizia Paiato.
A seguire, ogni giorno, pubblicheremo tutti gli altri articoli sulla Biennale 2019 e sulle mostre collaterali, scritti dai nostri collaboratori, apparsi sul n.273 di Segno giu/lug 2019.
Nel tentativo, pressoché fallimentare in partenza, di esprimere un commento imparziale a questa Biennale, proverò a esporre alcuni spunti di riflessione critica, cercando di allontanarmi il più possibile dalla tentazione di farmi “giudice che condanna o assolve [o diventare] un esaminatore che boccia o promuove”. Parole, queste, non mie, ma che appartengono a Pietro Marino, fra i più stimati e competenti giornalisti d’arte italiani, da sempre vicino a Segno, e che accolgo come un invito gentile a una riflessione ponderata. Riflessione che sarà certamente incompleta, così, come lo sono lo stesso linguaggio e la critica dell’arte, espressioni verbali di ciò che per natura si manifesta in un altro medium, ma che mi auguro restituisca il massimo grado di autenticità per quanto indotta dalle personali abitudini culturali.
Il Titolo. Ralph Rugoff, stimato curatore americano, critico e saggista, direttore della Hayward Gallery di Londra e prima ancora per sette anni Direttore del CCA Wattis Institute for Contemporary Arts di San Francisco, infine Direttore artistico della XIII Biennale di Lione, propone come titolo May You Live In Interesting Times, un’espressione della lingua inglese a lungo erroneamente attribuita a un’antica maledizione cinese, che evoca periodi di incertezza, crisi e disordini; “tempi interessanti” appunto, come quelli che stiamo vivendo (così si legge dal sito della Biennale).Nel muoversi fra Giardini e Arsenale sono diversi i linguaggi rappresentati, dalla pittura, alla scultura, alla fotografia, all’installazione, al video, alla performance, la varietà visiva che si offre allo spettatore è ricca, così anche i temi sviluppati dai 79 artisti invitati, e per la prima volta presenti in entrambi gli spazi – novità assoluta di questa Biennale – a testimoniarne la medesima eterogeneità espressiva, che variano dalla politica, all’etica, all’ecologia, alla tecnologia. Stando così le cose, è innegabile che l’intenzione curatoriale, rispondente al personale punto di vista di Rugoff, sia più che ampiamente rispettata. Ma, può bastare questo a elogiare positivamente questa Biennale? Personalmente ritengo di no, ma è proprio questa insufficienza – forse – a testimoniare più di qualsiasi altro aspetto, la complessità dei “tempi interessanti” leitmotiv della mostra internazionale. Un’esposizione all’insegna della dichiarata spettacolarizzazione (è lo stesso Rugoff ad affermarlo in un’intervista ai colleghi di Artribune qualche giorno antecedente l’inaugurazione), a mio parere, tuttavia eccessiva e a tratti stucchevole, egregiamente architettata per spettatori a caccia di forti emozioni. Non posso negare, pertanto, il mio personale disagio in questo discorso. Un disagio che nasce dal riconoscere eccellenze e opere di grande forza e intensità cui fanno da contraltare molte altre troppo banali a esprimere la complessità dei tempi, e più in generale anche formalmente discutibili, tanto da avermi lasciato una generale sensazione di disimpegno complessivo. Provo a spiegarmi meglio. Per quale ragione la Biennale di due anni fa avrebbe raccontato in modo meno convincente la complessità dei tempi? E perché un artista come Damien Hirt, con la mostra Treasures from the wreck of the unbelievable di Palazzo Grassi, sarebbe stato uno scandalo – per alcuni addirittura uno scempio – con la sua dichiarata e palese spettacolarizzazione dell’arte? Un fatto, a quanto pare, che in questa Biennale si accetta come prassi (o deriva di un sistema?). Non sarà forse stata l’onestà intellettuale di Hirst ad avere dato fastidio? Dichiarando esplicitamente che la contemporaneità si nutre di fiction e niente più, mentre per i benpensanti dell’arte e non solo, pare essere più comodo credere in un atteggiamento intellettuale anche laddove in verità non c’è? per l’appunto perché siamo in Biennale? Personalmente mi porrei qualche dubbio a cominciare dall’impostazione stessa della mostra. Sebbene Rugoff abbia consigliato di vedere prima l’Arsenale e poi i Giardini per capirci meglio qualcosa (e di fatti così è), fare il percorso al contrario, come lo abbiamo fatto noi di Segno, non aiuta a cogliere la proposta curatoriale, lasciando a mio parere, troppo spazio all’empatia e lo spettatore in balia di se stesso. Ai Giardini, pertanto, lascio subito intendere come la confusione sia maggiore, diversamente dall’Arsenale dove, una migliore attenzione al ritmo delle opere e degli spazi accompagna il visitatore in un percorso che all’inizio appare più che promettente per poi, tuttavia, perdersi strada facendo.
Alcune opere. È George Condo ad aprire le danze con Double Elvis, una grande tela che rappresenta due bizzarri personaggi scansafatiche ovvero la personificazione, o glorificazione, dell’umanità più turpe, mentre ai Giardini nella proposta di Facebook racconta la superfice, proprio quella che quotidianamente esperiamo nei social e ai quali deleghiamo verità assolute e la costruzione di relazioni e pensieri, di cui l’artista svela inganni e menzogne. Una pittura che lascia subito il passo alle gigantesche fotografie in bianco e nero dell’artista e attivista Zanele Muholi. Impegnata nella difesa dei diritti LGBTI in Sudafrica, con un percorso che, come per molti artisti, puntella in seguito l’intero itinerario espositivo, Zanele Muholi, ci offre scatti e autoritratti, che invitano, attraverso il gioco ossessivo del guardare, e un’innegabile estetica, all’assunzione di responsabilità verso la diversità fisica e identitaria, scatti che sembrano chiedere immediatamente al visitatore di abbandonare leggerezza. Così anche per il giovane Tavares Strachan, classe 1979, che propone il tema del viaggio spaziale (da sempre cinematograficamente mitizzato) attraverso un’opera multimediale (ai Giardini porta, invece, un lavoro sull’Encyclopædia Britannica come simbolo della dominazione culturale di matrice coloniale), maturato in seguito alla propria occupazione con SpaceX, una società privata che si occupa di tecnologia aerospaziale, grazie alla quale ha approfondito la figura di Robert Henry Lawrence Jr., primo astronauta afroamericano morto per un incidente avvenuto durante un’esercitazione nel 1967. Fatto, ovviamente trascurato dalle ufficiali narrazioni americane sui viaggi aerospaziali. Come dire, insomma…non c’è mito che regga, gli ultimi restano ultimi, nella storia così nell’universo. C’è poi l’opera video di Christian Marclay (già vincitore nell’edizione 2011) e composta di 48 film di guerra proiettati in sovrapposizione all’infinito, realizzata secondo le stesse tecniche di campionatura ai film hollywoodiani. Un lavoro, a mio parere, che si potrebbe indicare come il manifesto di questa Biennale, certamente la più rappresentativa dell’intera mostra, quella forse che meglio riesce a interpretare May You Live In Interesting Times.
Noto è il lavoro dell’indiana Shilpa Gupta che in Arsenale portacento leggii disposti nel buio con spartiti di poesie lette da microfoni, di autori incarcerati in tutto il mondo per le loro idee. È un inno, elegante e coinvolgente, alla libertà di espressione che tuttavia, ai Giardini con l’opera del cancello che sbatte rompendo il muro perde d’intensità, forse anche per l’attrattiva, da pseudo luna park, e troppo ravvicinata della mucca -treno dell’artista Nabuqi. Un’opera quest’ultima che, secondo gli stessi intenti dell’artista risponderebbe alle domande: “Una simile riproduzione della realtà può essere percepita come parte della realtà stessa? Il pubblico prova gli echi emotivi che avrebbe esperito di fronte alla realtà?”…io potrei anche rispondere sì se considero come realtà quella della pubblicità della Milka. Innegabilmente convincente è, invece, l’installazione Old Food (2017-2019) proposta di Ed Atkins, artistacapace di coniugare con grande maestria situazioni ironiche e alienate, malinconiche e dinamiche per raccontare il presente. Artista che ritroviamo ai Giardini con disegni disseminati ovunque appartenenti al ciclo Bloom, tarantole che si affiancano alla sua stessa testa rimpicciolita avvolta da peli di ragno il cui messaggio, inequivocabile, finisce, tuttavia, con il perdersi nel marasma del percorso. Si che i ragni non sempre si vedono ma la cosa appare complessivamente dispersiva. Rimanendo sull’argomento ragni, l’opera di Tomás Saraceno ai Giardini colpisce immediatamente. Nel riprodurre l’habitat degli aracnidi, specie capace di vivere ovunque sulla terra, si comprende subito come quest’ultima sia diventato un ambiente a rischio e inospitale anche per loro. Sicché la poetica intorno ai temi della sostenibilità, e sciolti attraverso straordinarie installazioni interattive, difficilmente può essere equivocata. Sarà forse un mio personale limite, ma se la poetica di un artista, aldilà delle specifiche esperienze culturali, arriva quasi nell’immediato, allora l’opera si fa potente e consolatoria al contempo, riuscendo in un certo modo a edificare il tempo. Lo stesso discorso, valga per l’intervento all’Arsenale dove, i giochi hi-tech con le nuvole mi sembrano avvalorare queste argomentazioni. Fra le più discusse e osservate ci sono poi le opere del duo cinese Sun Yuane Peng Yu. Bloody clean machine ai Giardini è inquietante. Si tratta di un braccio robotico chiuso dentro una gabbia di vetro che tenta disperatamente di raccogliere e spazzare via il sangue (inchiostro rosso) che tracima sul pavimento. In molti vi hanno letto nel movimento tecno del pennello, un inconsolabile e angosciante lirismo, simile alla danza di una baccante di Dioniso. Io devo, purtroppo, confessare la scarsa empatia con quest’opera che ammalia, a mio parere, più per le proporzioni esagerate che per la sostanza. Fra l’altro, sono gli stessi artisti a dichiarare che lo scopo del proprio lavoro è quello di suscitare meraviglia e tensione nel pubblico, perciò mi domando perché mai si senta tanto l’esigenza di rintracciare a tutti i costi qualcosa di “poetico” giacché, probabilmente, esso non appartiene alle intenzioni stesse degli artisti. Tutto sommato mi pare si possa affermare che la nostra epoca di poetico ha ben poco, perciò considero più autentico l’esercizio della spettacolarizzazione palese, anziché il travestimento dell’impegno. Tornando a Sun Yuan e Peng Yu, anche in questo, ho gradito di più l’opera all’Arsenale dove, forse complici le luci, quell’aurea di meraviglia mi è arrivata maggiormente. Non sono certa che il fatto della gabbia da solo bastasse a conquistarsi uno spazio indispensabile all’opera stessa, tanto che, sempre secondo la mia personale visione, proprio Bloody clean machine distoglieva lo sguardo dal muro di cemento e filo spinato crivellato di colpi con cui Teresa Margolles solleva simultaneamente e molto chiaramente gli aspetti legati, tanto alla criminalità del suo Messico quanto ai muri anti-immigrati eretti dal Presidente americano Donald Trump. E, come dire, sempre all’Arsenale l’artista, con i suoi manifesti-volantini di donne scomparse riesce a conquistarsi quel poco di spazio che tanto basta a raccontare lo spaventoso dato sul femminicidio del narcotraffico del suo Paese. Non lasciano indifferenti neanche le opere fotografiche di Mari Katayama dovel’artista, con protesi alle gambe poiché affetta alla nascita da una rara malattia genetica delle tibie, usa se stessa come altri materiali ribaltando, se vogliamo, la percezione che si ha verso il corpo e l’oggetto, palesemente trasformato in orpello della contemporaneità.
Non potendo citare gli artisti invitati uno per uno, valgano quelli fin qui argomentati come possibili esempi per un discorso che meriterebbe certamente di essere approfondito. Opere che, in un certo modo, mi hanno parlato, seppure mescolate al pot-pourri generico di una Biennale che il più delle volte mi è sembrata proporre lavori troppo palesemente disimpegnati e banali (forse non sono solo tempi conflittuali ma, per l’appunto, anche mediocri? Mediocri per l’arte?) rispetto a un tema così – forse un po’ troppo pretestuosamente – complesso. In tal senso, non riesco a sganciarmi dalla visione della Biennale di Venezia del 2013, quella di Massimiliano Gioni che, con Il Palazzo Enciclopedico e tutti i se e i ma del caso, risulta ancora ad oggi, e curatorialmente parlando, impeccabile. Vero è che, se la crisi dell’arte contemporanea trova la propria genesi nella fine del concetto di evoluzione dei linguaggi artistici, proprio con Gioni esso tocca il suo massimo grado, per poi figurarsi come un tutto in discesa come dimostrano le ultime tre Biennali (anche se personalmente quella della Macel del 2017 mi è parsa paradossalmente più impegnata). È con Gioni, così come bene ci racconta il compianto Mario Perniola in Arte Espansa, che “avviene un vero cambiamento del paradigma di che cosa intendiamo per «arte» e per «artista» sicché, anche i successivi tentativi di contenere il fenomeno “populista secondo cui l’arte può essere fatta da tutti”, per certi aspetti sembra avere fallito. May You Live In Interesting Times dunque e purtroppo, mi sembra avere reso realtà le parole, quasi profetiche, di Perniola, quando affermava in merito alla Biennale di Gioni che: “si corre il pericolo di affogare in un abisso di insulsaggini e di futilità, in cui scompare non solo la vecchia idea dell’arte, ma anche ogni possibilità di fornire un orientamento in un melting pot in cui tutto si confonde con tutto, con l’emergere di valutazioni arbitrarie, malevole, mistificatrici e manipolate”. Potrebbe essere questo il motivo del mio personale fastidio verso la citatissima nebbia di Lara Favaretto, artista straordinaria che ho sempre apprezzato per la sua capacità di mostrare come, come nel concetto di smaterializzazione e sparizione dell’opera, sia effettivamente avvenuta l’estetizzazione di tutto il reale (Baudrillard). Ai Giardini, a mio parere non funziona. L’opera, non inedita fra le altre cose (si veda Thinking Head, Nottingham Contemporary, 2017) perde di valore e d’intensità a causa del contesto, finendo nella confusione generale che non fa ammirare la poetica dell’artista. I sussurri e le voci non si apprezzano e il senso dello spazio suggerito dall’incorporeità della nebbia stessa finisce per sembrare un mero e banale gioco, situazione, per me aggravata, dalla nebbia allo stesso modo usata da Laure Prouvost rappresentante del Padiglione francese. E anche la Favaretto, per me è la Favaretto nella proposta all’Arsenale dove, con Snatching, mette in atto l’umana e vitale resistenza simbolica alle rigide architetture delle città moderne.Sull’altra presenza italiana in mostra, ossia Ludovica Carbotta, aimè devo dire che, seppure con un lavoro più che meritevole ma formalmente non d’impatto, finisce nel confondersi con tutto. Infine, molto si è detto circa la scarsa presenza italiana in Biennale. Il dato va rilevato e credo esso possa riferirsi più a un problema di non politica culturale che altro, fatto che, tuttavia, non implica che necessariamente nella mostra internazionale l’Italia debba essere per forza rappresentata.
Conclusioni. Correva l’anno 1993 quando, la Biennale di allora affidata ad Achille Bonito Oliva si apriva a coesistenza delle differenze e dei linguaggi (si veda Segno – critica e documentazione – Speciale Biennale di Venezia, supplemento al n. 125 – giugno 1993; con uno spaccato a cura di Lucia Spadano e il dialogo con Bonito Oliva a cura di Paolo Balmas, Dal Territorio Magico allo Sguardo del Maiale). Proprio in quella lunga intervista, A.B.O. concludeva affermando: [oggi] “ la posizione del critico vive tra i resti dell’arte e tra questi resti può commuoversi e sopravvivere trovando dignità, autonomia e nutrimento, quel nutrimento che gli permette, appunto di fondare la sua propaganda dell’arte. Perché cito questo momento e questo scritto? Perché penso, purtroppo, che incertezza, crisi e disordini dei tempi che stiamo vivendo! “i tempi interessanti”, così la banalità dilagante intuita da Perniola, riguardi anche la critica d’arte. Non resta dunque che commuoverci (a questo punto direi sorridere) e sopravvivere. E mi fa sogghignare anche rileggere oggi un piccolissimo testo sempre di A.B.O. Arte e sistema dell’arte, edito nel 1975 dalla Galleria Lucrezia De Domizio di Pescara dove, non solo spiegava la crisi dell’arte nell’epoca della sua crisi, ma anche come “il critico [dovesse] usa[re] le arti discriminanti della selezione e della qualità: svolge[ndo] un ruolo sadico e repressivo procede[ndo] per esclusioni e per tagli”. Ma, ancora, sempre A.B.O. scrive: “[…] l’unico ruolo della critica è l’autocritica, nel senso di una velenosa autocoscienza del proprio ruolo verso il pubblico e verso il mercato. […] Verso il pubblico la critica svolge un ruolo socratico; essa aiuta lo spettatore a trovare un contatto con l’opera non solo emotivo ma più vitalmente conoscitivo”. È proprio tale aspetto conoscitivo che sento essere venuto meno, talvolta da parte degli artisti, altre, per l’appunto, dalla giovane critica che, ho paura, sia molto sopita (salvo eccezioni s’intende) o preoccupata a non disturbare nessuno, finendo nell’impossibilitata di svolgere la propria finzione socratica con il pubblico. Così i curatori, se vogliamo, più che interrogarsi su questioni letterarie e filosofiche legate all’arte e che ritengo importanti, sembrano gradire maggiormente paillette e lustrini.
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