Berna Reale (1965, Belém, Brasile) lavora con performance, video e fotografie che affrontano la violenza esercitata dallo Stato e dalla società. Nelle sue esibizioni e installazioni, coinvolge il proprio corpo e coloro che desiderano partecipare alla riflessione sul momento sociopolitico contemporaneo. La violenza è stata al centro della sua ricerca negli ultimi anni. L’artista, che è diventata anche un esperto criminale presso il Centro de Perícias Científicas do Estado do Pará, indaga le più svariate questioni di criminalità e conflitti sociali. Le sue performance pongono domande relative al corpo e alle aggressioni quotidiane al fine di creare un rumore stimolante.
L’intervista si è svolta a Milano in occasione della mostra Brasile. Il coltello nella carne e a seguito della performance Camouflage, facente parte del programma di performance del Pac che vede artisti di diverse generazioni affrontare temi legati al cambiamento storico e sociale del Brasile, utilizzando il corpo come territorio di ricerca identitaria.
Matteo Binci: È attualmente in corso, presso il Pac (Padiglione d’Arte Contemporanea) di Milano, la mostra Brasile. Il coltello nella carne, esposizione curata da Jacopo Crivelli Visconti e Diego Sileo nella quale sei stata invitata a realizzare un nuovo lavoro. Nasce così Camouflage, una performance che ti ha vista trainare un carretto carico di lenzuola, utilizzate in Brasile per coprire le vittime di morti violente, lungo diverse vie del centro di Milano e che viene ora documentata ed esposta attraverso un video…
Berna Reale: Quando sono stata invitata, per prima cosa, ho sottolineato che per me era impossibile pensare ad una performance all’interno del museo perché le uniche situazioni durante le quali potrei collocarmi in uno spazio espositivo sono la registrazione di un video o lo scatto di una fotografia. L’atto performativo deve vivere in strada perché prima di tutto è importante il contatto con le persone che non sono mai state in uno luogo dell’arte. Inoltre, a causa di un codice del mondo dell’arte, i visitatori di un museo rimangono in silenzio anche durante una perfomance che non piace loro. Decidono di non dire niente, non dissentono. È una dimensione assolutamente controllata.
Camouflage nasce all’incirca dieci anni fa, quando raccolgo queste lenzuola che hanno realmente fatto parte di una scena del crimine. Precisamente le ho recuperate facendo riferimento a un registro di vittime anonime di omicidio. Allo stesso tempo, penso anche alla possibilità di fare una performance nella quale compaiano delle mosche perché esistono delle mosche specifiche che mangiano il corpo morto quando è in putrefazione. Tuttavia in strada è difficile che le persone si accorgano delle mosche perché lo spazio è aperto ed ampio, ma durante il montaggio del video posso sviluppare questa connessione per immagini tra mosca e cadavere. A questo proposito, penso che ci siano sempre due lavori: il primo si svolge nella strada e ha i suoi simboli e i suoi obiettivi più forti; il secondo è il video nel quale si fa editing e si sviluppa un pensiero per scegliere le immagini. Sono due lavori completamente differenti e per questo voglio farli entrambi.
MB: È subito evidente il tuo voler vivere le situazioni in prima persona, senza delegare la realizzazione ad altri performer. Perché ritieni necessario portare avanti la tua ricerca attraverso il tuo stesso corpo?
BR: Non ho mai fatto un progetto nel quale non sperimentavo in prima persona, attraverso il mio corpo, quel determinato momento. Ogni volta, io so quel che voglio fare e come impiegare il mio corpo. Io non so se nel futuro il mio fisico mi permetterà di continuare questa sperimentazione, ma per il momento per me è molto importante.
Ho iniziato a fare perfomance in un secondo momento della mia ricerca artistica, poiché all’inizio mi concentravo soprattutto su fotografia e installazione. Il cambiamento accadde quando, per una mostra a Belém, frequentai per otto mesi l’istituto di perizia criminale poiché volevo scattare foto ai cadaveri. È da qui che nacque anche il mio interesse e la decisione di iscrivermi ad un corso per diventare perito criminale. Precisamente, una sera arrivai in anticipo e, mentre stavo aspettando il mio insegnante, vidi molti ragazzi nel cortile che stavano accerchiando un compagno intento ad eseguire un esercizio imposto come punizione. Tutti stavano deridendo l’uomo e capii che quella situazione era per me un’immagine intensa. Come si può, all’interno di una caserma di polizia, imporre una punizione durante la quale le persone osservano e deridono un compagno? È in quel momento che ho pensato: voglio fare questo in arte, qualcosa di vivo, reale, perché per me è più forte di una fotografia e di un video. Così ho subito ideato il mio primo progetto.
MB: Guardando alcune tue performance come Cantando na chuva (2014), Americano (2013), Soledade (2013) è sempre presente una distinzione chiara e netta di immaginari contrastanti e alcune volte subentra l’utilizzo della parodia. Penso a quando canti e danzi su di un tappeto rosso all’interno di una discarica o quando guidi una biga dorata trainata da porci. Sono tutte immagini inequivocabili, ferme, d’impatto, con persone attorno che sono completamente distanziate, estranee a quel che sta accadendo. Tuttavia questo distaccamento dal contesto non è dettato dal disinteresse, ma manifesta la volontà di accentuare il divario visivo con la realtà sociale per evidenziarne le contraddizioni…
BR: Io non sono un’artista intellettuale, non faccio un lavoro per il quale bisogna conoscere l’arte o la filosofia. Io amo un’arte semplice, amo la semiotica, ma amo la semiotica del quotidiano nella quale tu vedi un simbolo rosso e pensi all’allerta, alla violenza, alla tensione. Per me è importante la comprensione diretta. Anche gli ambienti che scelgo per le mie performance sono dei simboli e ne fanno parte. Ad esempio se quando traino la biga vengo vista come un’imperatrice, anche le persone che iniziano a corrermi attorno ne diventano parte integrante. Quel che penso costantemente è che tutto sia un simbolo, anche il colore dei tuoi capelli. In Paloma è molto importante la mia postura, è stato uno sforzo continuo mantenerla, ma questo sottolinea il rigore necessario. Lo stesso vale per la collana di perle contrapposta alla biga di maiali (Soledade). Questi particolari sono molto importanti e comprensibili. Tutto questo vuol dire avere anche un controllo sul proprio corpo. Ad esempio Il giorno di apertura della mostra al Pac non potevo dipingermi le unghie per il vernissage perché il giorno seguente avrei dovuto performare Camouflage. Oppure in Limite Zero sono stata sei mesi senza prendere il sole perché non volevo un simbolo sessuale sul mio corpo, volevo il mio corpo nudo ma non il segno del reggiseno o del costume perché quello sarebbe diventato immediatamente marchio sessuale e invece cercavo un simbolo della morte e della fragilità. Per questo è molto importante controllare tutto il processo e utilizzare linguaggi diretti. Sento la necessità di pensare l’arte in una forma semplice.
MB: In effetti il tuo corpo, anche quando appari completamente nuda, pensiamo a Limite Zero (2012) e Quando Todos Calam (2009), non è mai un corpo sessualizzato ridotto ad oggetto del desiderio, bensì è un corpo che rivendica un impatto sociale e politico…
BR: Sempre! Io penso sempre che il mio lavoro non sia per me stessa, ma per la società. Ad esempio non parlo della mia infanzia, dei miei problemi strettamente personali. A me piace quando un problema non è solo mio, ma è un problema collettivo. Non faccio mai qualcosa solamente per me stessa, né rielaboro un sentimento di mia madre, di mio padre o un trauma. Io parlo di questo con altre persone. Affronto invece problemi comuni della società. Non è una discussione personale, ma una discussione collettiva. Non voglio fare psicologia sulla mia vita o su me stessa, non faccio un’operazione familiare perché il lavoro collettivo è più importante.
MB: Parlando invece della tua dimensione personale, come vivi questa duplice condizione di perito criminale e artista. Te lo chiedo perché utilizzi spesso il linguaggio militare, la fierezza, la concentrazione severa dello sguardo che taglia e decide, ordina (Palomo). Un linguaggio del tuo corpo che convive con quello dei morti ammazzati, delle scene del crimine e della violenza…
BR: Penso che nella mia vita ho sviluppato prima di tutto una dimensione sociale e solo in un secondo momento sono diventata perito criminale. Ma penso che la mia ricerca artistica ha iniziato ad indirizzarsi socialmente quando ho cominciato a lavorare con il crimine. Diventare perito è stato per me un periodo di cambiamento. È stato un momento di rottura e di arricchimento della mia vita. Quando vedo una scena del crimine penso: come posso parlarne ad una persona che ignora questo ambiente?
MB: Pensando invece al tuo ritorno in Brasile, hai qualche progetto in cantiere?
BR: Ho in programma un nuovo lavoro che non si concentrerà sulla violenza criminale. Qualcosa di completamente diverso perché penso che l’artista deve pensare tutto come se fosse una sfida continua. Sarà un’opera ironica che parla del corpo, della sessualità maschile e femminile. Quando ritornerò a Belém ho già pensato ad una performance in Brasile con cento uomini per parlare di omosessualità. Una sfida totale, voglio essere sempre un’artista che non perde la forma di agire. Non ci sarà niente di militare e poliziesco.
MB: Dunque continuare a parlare del corpo, ma un corpo che diventa ora estremamente sessualizzato. Da che cosa deriva questo cambiamento?
BR: Storicamente parlando, penso che l’oggi sia un momento propenso ad affrontare determinate tematiche perché non è possibile continuare ad accettare i preconcetti. Ho in mente un progetto aperto sulla sessualità perché stiamo vivendo un momento di contraddizione. Molti dicono che non è possibile avere una sessualità chiusa, affermando la libertà omosessuale, ma allo stesso tempo parte della società pensa: “sono una donna e non puoi toccarmi il seno”. Tutto questo è una contraddizione. Vogliamo una libertà totale, baciare chiunque, ma non vogliamo che altre persone ci tocchino. Vogliamo una sessualità aperta, ma con pudore, non vogliamo farci toccare. Allora ho intenzione di trasformarmi in un corpo con un seno grande ma anche con i testicoli maschili. Io sono un corpo bisessuale. C’è in Belém una via piena di persone. Voglio andare e farmi toccare dalle persone.
MB: Anche perché spesso sono gli stessi divieti a creare forme di violenza…
BR: Infatti non c’è libertà del corpo. È un problema sociale: cosa vogliamo sessualmente? Vogliamo un’apertura teorica, ma non fisica del corpo? Voglio discutere di questo, ma in forma ironica.
Allo stesso modo nella mia nuova esposizione Gula rifletto sulla violenza come gola, sulla voracità contemporanea e sulla vulnerabilità che ne deriva, utilizzando l’ironia per sottolineare come anche la violenza abbia un sapore, perché tutto ha un sapore. È anche questo un lavoro politico, ma in un’altra forma, è una sfida. Perché per me l’artista che usa sempre la stessa formula non va bene. Io voglio cambiare, voglio cose diverse, voglio fare. È questa la libertà dell’artista. L’artista deve avere il potere di parlare.
Berna Reale ha partecipato a numerose mostre personali e collettive in Brasile e in Europa, tra le quali la Biennale di Cerveira (Portogallo, 2005), la Biennale di Fotografia a Liegi (Belgio, 2006), Amazon – Cycles of Modernity presso il Centro Cultural Banco do Brasil (Rio de Janeiro, 2012), From the Margin to the Edge, Somerset House, Londra (Regno Unito, 2012), Bulletin, Millan Galleria, São Paulo (SP, 2013), Vazio de Nó, Museo d’Arte di Rio de Janeiro (RJ, 2013), Cães sem Plumas, Galeria Nara Roesler, Rio de Janeiro (RJ, 2013), Arquivo Vivo, Palazzo delle Arti, São Paulo (SP, 2013) .
Ha ricevuto il premio della Hall Art Pará a Belém (PA 2009), ed è stata selezionata per i premi Rumos Visuais – Itaú Cultural (2012-2013), Pipa Prize (2012-2013) e Premio Marcantonio Vilaça (2015).
Nel 2014, ha rappresentato il Brasile alla 56. Biennale di Venezia (Venezia, Italia, 2014).