Duccio Nobili – Marmo canta. Fin dal titolo questa mostra mette in campo il cortocircuito innescato tra il marmo e le illusioni materiche provocate dalla sua lavorazione. Cosa significa per lei lavorare con questo materiale?
Antonio Trotta – Secondo Giorgio Colli i greci avevano l’arroganza di possedere la luce. Di ritorno in Italia nel 1968, dopo essere stato parte delle avanguardie degli anni sessanta e dopo che tale linguaggio futuribile o effimero si fosse esaurito, venne l’idea, a me e a pochi altri, di rivolgere lo sguardo verso le nostre origini. Sono nato vicino a Paestum e Velia, la Elea da cui Parmenide, insieme a Zenone, aveva portato ad Atene la filosofia “Eleatica”.
Questo ritorno ai materiali nobili include il mosaico e il bronzo. Da qui nacque la mia nuova scultura ispirata al dio Vulcano che devolve a Empedocle il sandalo fuso in bronzo, nato come in natura, intero, non costruito come gli oggetti allora di moda. L’oggetto, essendo “letterario” serviva di più agli organici di qualche ideologia.
Da secoli il marmo viene utilizzato per fingere altri materiali nella scultura. Come si è rapportato, se lo ha fatto, con questa tradizione?
Da secoli il marmo finge di essere imperatore, ballerina e quant’altro. In realtà, lontano da certe retoriche, la ballerina non è più la ballerina reale. Composta di bronzo o marmo essa nasce come un nuovo essere che vive di bronzo o di marmo, lontano dall’originale effimero.
Quando ha scelto di trasformare il marmo nel suo strumento d’espressione privilegiato?
Per me è soltanto un problema di luce. Ho capito che il marmo era il materiale che meglio mi permetteva di sviluppare una ricerca in questo senso.
In mostra sono presentati lavori che utilizzano una grande varietà di strumenti e materiali, dall’aleatorietà della fotografia, passando per il metallo fino alle materie plastiche o il mosaico, quale ritiene essere il filo rosso che tiene insieme queste esperienze con il suo più recente lavoro sulle ambiguità materiche del marmo?
Negli anni della svolta, dello sguardo alle nostre origine liberato dalle “militaresche” avanguardie, si accede a quel cosmo in cui, come aveva detto Savinio, non ci sono più ponti che uniscono la realtà con la finzione, scompaiono i confini tra l’arte e la vita. Siamo liberi di navigare in un cosmo infinito di materie e artifici nella rappresentazione della rappresentazione.
Lucio Fontana, Hidetoshi Nagasawa e Luciano Fabro, sono questi alcuni dei nomi che vengono presi in causa per accompagnare lo sviluppo del suo lavoro, cosa hanno rappresentato per lei questi artisti e intellettuali?
In realtà fu l’argentino Fontana il mio vero riferimento. Io partecipai alla Biennale del ’68 per l’Argentina e Fontana aveva una sua grande sala. Fui invitato, dato il suo stato di salute, a Comabbio a visitarlo, e lì passai tre intense giornate in sua compagnia. Nella Biennale precedente era stato premiato un altro argentino, Le Parc. Oggi con la mostra di Fontana a Milano si dimostra che cosa era l’Argentina del tempo. Dal nostro punto di vista l’America colta eravamo noi, sia per quanto riguarda l’arte che la letteratura. Gli ultimi anni di Borges, l’uomo più erudito del mondo, furono infatti occupati da un numero infinito di conferenze nelle università americane.
Io ero stato invitato a New York da un curatore della Guggenheim, ma Fontana mi consigliò di tornare a Milano, e infatti questa città nei primi anni settanta era diventata il centro del mondo, con gli artisti americani che erano venuti qui a fare l’America.
In Argentina, che era dotata di una classe culturale evoluta, ero stato scelto insieme a una decina di giovani che avevano alle spalle alcune mostre realizzate nel Museo d’Arte Contemporanea di Buenos Aires, in quello di Belle Arti e nell’istituto di Tella, creato da un industriale italo-argentino allo scopo di promuovere mostre nazionali e internazionali, poi portate in mezzo mondo. Nel ’68 io e questi giovani siamo stati invitati a realizzare la mostra “Experiencias Visuales”. La mostra fu distrutta e le opere buttate in strada allo slogan «La vera opera d’arte è la revolucion». È allora che fecero la revolucion con quindicimila morti in nome di Che Guevara, Castro e la sinistra Peronista. Noi giovani famosi dovevamo andarcene dato che non volevamo armarci per ammazzare degli innocenti. Per fortuna le mie opere ebbero successo a Venezia e un gruppo di artisti milanesi come Fabro e Nagasawa volle venire a conoscermi. Ebbi così l’occasione di integrarmi creandomi un gruppo di artisti amici. A Milano nel ’68 l’Arte Povera non era ancora ufficializzata e, anche se non ero d’accordo con le loro teorie rivoluzionarie, da cui ero appena scappato, conobbi e fui amico di tutti i suoi rappresentanti.
Anche il tempo è un tema ricorrente nelle opere esposte in galleria, l’istante congelato nella serie dei Sospiri, l’accenno biografico solidificato nei più recenti Scontrini fino all’intrecciarsi di presente e passato di Altri tempi. In che modo le riflessioni di Borges su questo e altri temi hanno influenzato il suo lavoro?
“Altri tempi” vuol proprio dire che tanto io quanto le mie opere vengono da lontano, da altri tempi da cui viene l’arte che non vuole identificarsi con l’oggi.
Antonio Trotta
Galleria Giovanni Bonelli, Milano
L’Intervista a intervista a cura di Duccio Nobili è pubblicata sul n. 265 di Segno