Tutti gli articoli su

home Interviste Alessandra Paganardi

Alessandra Paganardi

Ammazzare il tempo: con quali armi?

Tutte le espressioni popolari celano un’antica saggezza e questa non fa eccezione. Fra le righe si legge una verità fin troppo nota: il tempo consuma, fa invecchiare, uccide. Lo sapeva già Ovidio (come la maggior parte dei “classici”, aveva capito quasi tutto) quando parlava di “tempus edax”. Lo sapevano benissimo Eliot, D.H. Lawrence, T.S. Eliot e Virginia Woolf, soltanto per fare alcuni nomi della medesima area linguistica. Lo sa la poesia. Ma allora bisogna capovolgere il discorso: se non siamo noi ad ammazzare il tempo, ma è il tempo che ammazza noi (e l’avrà vinta comunque), bisogna proprio fare il contrario di ciò che auspicherebbe Matteo con la parabole del ladro, nel Vangelo canonico a lui attribuito: anziché vegliare per non farsi sorprendere, bisogna cercare di alternare sonno e veglia con salute e misura. Bisogna accettare il tempo che passa e non nascondere crepe e cicatrici, come insegna l’arte del kintsugi. La misura, ecco l’arma per difendersi dal tempo. Che, non per niente, è stato presto misurato, anche per poterlo esorcizzare: ed è stata una delle più straordinarie conquiste della mente umana.

“Da qui all’eternità”: è un lungo viaggio, in quale stazione fermarsi?

La domanda, dal mio punto di vista, ha già una risposta, anche se non siamo stati e non saremo noi a dargliela. Essere venuti al mondo, esservi stati “gettati” (la famosa “Geworfenheit” heideggeriana), è per l’appunto questo: essersi fermati in un punto preciso, anche se non abbiamo scelto dove né quando, né perché. Bisogna fermarsi nella vita, godere i doni dell’arte e della relazione amicale, erotica con il mondo (i beni più preziosi che abbiamo, dopo tutto); possibilmente, quando bisognerà farlo, lasciare il mondo senza risposte, ma anche senza disperazione. Lasciare ad altri più giovani di noi un mondo un po’ più vivo, un po’ più giusto e bello di come l’abbiamo trovato. Non so se l’eternità mi interessi, anzi non credo proprio, dal momento che – come avevano capito, ancora una volta, i greci – l’eternità non può essere contenuta nella nostra mente, né in questo nostro segmento di sosta.

Scrive Montale: “…..L’attesa è lunga, il mio sogno di te non è finito”. Ma i sogni finiscono? O si interrompono?

Se parliamo di sogni: finiscono, ma si rinnovano. Se parliamo di sogni come desideri, alla Walt Disney: qualche volta si avverano, anche se – paradossalmente – spesso ciò accade proprio quando credevamo perduta per sempre la capacità di desiderare. Rientra, in un certo senso, nel discorso di cui al primo punto. Simone Weil diceva che le cose importanti non vanno desiderate, ma attese. Saper attendere è una grazia che raramente si possiede a vent’anni. Forse perché a quell’età spettano altri doni, forse perché, dopo tutto, le grazie non si posseggono mai. Ci attraversano. Il che non significa che non debbano essere coltivate. Il talento artistico è un perfetto esempio di grazia coltivabile, anzi da coltivare con la forza di una responsabilità verso se stessi e verso il mondo. Come la Bellezza, di cui è portavoce e testimone, l’arte è la vita stessa, un “tertium” potente fra selvaggio e addomesticato.

“Sarei inarrestabile se solo riuscissi a incominciare”: quali pronostici per il “quando”?

Spesso il problema non è cominciare, ma continuare, resistere all’incostanza e allo spegnimento continuo che la quotidianità ci impone. Come poeta, ma anche come persona, mi sento più centometrista che maratoneta: sono tendenzialmente incostante e lo considero un grave difetto, su cui ho lavorato e lavoro molto. Proprio per questo, quando scrivo, mi impongo una regola: avere ben chiaro, emotivamente e strutturalmente, il “progetto” dell’insieme, benché il termine non sia esatto. Prima di scrivere una poesia debbo aver presente la conclusione, spesso addirittura il verso finale. Prima di comporre una silloge debbo averne chiara la temperie, l’aura. Non è scrivere “a tavolino”, ma proprio il contrario: navigare a vista, ma sorretti da una salda conoscenza dei venti e delle tempeste, capace di trasformarsi in previsione e intuizione. La poesia non tollera improvvisazioni. È troppo più grande di noi per lasciarsi ridurre a un’infatuazione da adolescenti.  È degna del grande amore, che raramente si realizza nella vita in un rapporto a due e del quale è essa stessa segno: quell’eros che si rinnova ad ogni incontro ma è già impresso nelle cellule, come un destino.

ieri, oggi, domani: un labirinto dove perdersi o ritrovarsi?

Non lo chiamerei labirinto. Penso piuttosto a una piazza bellissima, la piazza-simbolo di una grande città, in continuo cambiamento, con palazzi storici e sculture moderne: dove ci si può perdere quando si è un po’ stanchi (sono tendenzialmente agoràfoba!!), ma anche scoprire ogni giorno un pezzo nuovo. Sono nata a Milano, dove vivo, e per me, banalmente,  piazza del Duomo è proprio una figura del tempo. Il passato è rappresentato dalla cattedrale, il presente e il futuro dal passaggio incessante delle persone, dai progetti architettonici in continuo mutamento, dalle fantasmagorie della tecnica (quand’ero piccola c’era a dattilografa al neon che pigiava i testi della macchina da scrivere, ora c’è ben altro….). Ecco, il tempo è una grande piazza e non lo si esplora mai del tutto. Un luogo in cui sostare e imparare ogni giorno qualcosa, conservando quanta più memoria storica sia possibile.

Che cosa fischietti a tempo perso?

Non ho mai imparato a fischiettare. Mi suono interiormente e mi ricanto i miei concerti e pezzi preferiti, classici e moderni, in un gran minestrone di musica: il Lago dei Cigni e il concerto in mi bemolle maggiore di Tchaikovsky, la Siciliana per flauto di Bach, i notturni di Chopin solo per citare i primi che mi arrivano in mente: poi le romanze cantate da Enrico Caruso, Satie, la Premiata, Fossati e De André, De Gregori, Elton John…a tempo perso sono possibili allegri sincretismi, quando e come se no?  

Un giornalista ha chiesto in una intervista a John Lennon: prevedi un tempo in cui andrai in pensione? Le leggende non vanno mai in pensione, o no?

Come poeta spero di scrivere sempre. Anzi, se non fosse un’idea eccessivamente romantica direi che mi piacerebbe morire mentre penso al prossimo verso da scrivere. Come insegnante di filosofia e scienze umane, per quanto io ami i giovani, spero di andarci al tempo giusto – che ahimè, per la mia generazione, pare spostarsi sempre più in là….

Ogni “sabato del villaggio” allude a delle aspettative: quali sono le tue, quelle che reputi migliori?

Il mio prossimo libro di poesie, che uscirà a gennaio e si intitolerà “La regola dell’orizzonte”. 

Nell’Eclipse, dei Pink Floyd, il testo “it’s all dark” non prevede l’attesa di un’alba, di un lato illuminato della luna. E’ solo un’illusione?

Non è un’illusione, è un orizzonte. Ciò che Kant definiva “noumeno”, o “idea regolativa della ragione”. Non per niente, come ho appena detto, la parola orizzonte è nel titolo del mio libro in uscita. L’importante è distinguere fra orizzonte e terra, fra illusione e realtà. In questo senso sono d’accordo con i Pink Floyd, corretti però – come dicevo prima – da Simone Weil. Attendere sì, ma senza voler toccare, possedere, ingombrare con il nostro solito, noioso “io”. Come l’uccello delle Upanishad citato anche da Cristina Campo, che guarda il fiore senza divorarlo. Lo stesso concetto dell’iki, la rinuncia non ascetica ma vitale, che resta fedele a se stessa e lascia l’oggetto integro.  E che è compatibile, come dicevo prima, con l’attesa, anzi è attesa essa stessa. Vivere in una simile attesa, anche in arte, significa esercitare una virtù difficilissima: la costanza – non nel senso di sopportazione passiva, ma nel significato etimologico di “cum stare”, tenersi insieme nella coerenza di un progetto, di un pensiero. Non è facile, soprattutto in un’epoca che spinge al tutto e subito e soprattutto per temperamenti inquieti e passionali, quali spesso sono gli artisti. Ma si può, come dicevo prima, lavorare su se stessi. Assimilare e trattenere dall’esperienza ciò che manca, esattamente come aggiungiamo con l’alimentazione le vitamine  che l’organismo non è in grado di sintetizzare da solo. Allora l’altra faccia della luna non sarà né illusione evanescente, né realtà da consumare: sarà una bussola, una tensione al meglio; sarà il verso che non abbiamo ancora scritto, quell’energia utopica che vorremmo lasciare in eredità alle generazioni future, affinché completino ciò che noi abbiamo tentato di fare.

Alessandra Paganardi

About The Author