Noi italiani abbiamo un difetto: non siamo in grado di dialogare con il passato artistico. Sappiamo di averlo. Malgrado ciò, lo lasciamo “invecchiare”. Con le conseguenze della decomposizione. (Siamo un Paese decomposto, infatti). Il passato, invece, sì: con noi dialoga, anzi urla. E spesso dolorosamente.
Dall’altro lato c’è l’ostinato desiderio, con un pizzico di feticismo banale, di installare opere contemporanee in giro per i magici scenari urbani delle nostre antiche città.
Pare il giochino inverso che certi fanciulli, alla nido, facevano per sviluppare le capacità logiche e ammazzare il tempo: il triangolo nel triangolo, il quadrato nel quadrato, il cerchio nel cerchio. E diventati grandi, non avendo capito il giochino, senza logica e ammazzando ancora il tempo, continuano: il presente nel passato, l’opera contemporanea nella… città medievale. Si tratta di una moda. Ritengo inventata qualche anno fa dall’architettura, brava a inventare pessimi stili.
Le nostre (patologiche) città, per esempio, nonostante siano periferiche e piatte, sono talmente piene di corto circuiti estetici che, se si andasse a passeggio privi di accorgimenti, si rimarrebbe folgorati.
Però… a volte, cioè raramente, tali opere artistiche riescono, sorprendentemente, a contenere “qualcosa”: magari un messaggio. Che fa semplice eco, o riflette a ragione, su questioni complicate. Ovvero, quello che dovrebbe fare l’arte?
Che Firenze abbia adottato, da tempo, un programma con gli obiettivi adolescenziali dello shock (ma rivolto a chi, poi?) lo avevamo capito. Da Clet (anche se in in modo locale, e autofinanziato) a Koons e Fabre, approdando (mai termine è stato più esatto) al famoso Ai Weiwei.
Non passa stagione che la città di Dante sia fuori dalla polemica dei più fini intellettuali, i quali, avendo fatto bene la nido, cercano di inserire le figure geometriche al loro posto, inorridendo di fronte al linguaggio delle installazioni (un linguaggio, appositamente, fuori le regole). Per la gioia dei quotidiani che -è risaputo- si nutrono di roba scaduta, e dei lettori che -addestrati dalla TV- amano il pettegolezzo.
Stavolta il cinese barbuto, che è straricco (dicono), finto bohémienne, e retorico con la nuova opera, il messaggio invece lo ha preparato bene. Di contro alle critiche finora in piazza, probabilmente non funzionano così male la grammatica e il contesto. Ma prima dialoghiamo con il passato italiano, sinteticamente.
Palazzo Strozzi nasce un po’ per “rompere”. Con l’impostazione della città, con il potere. Costruito da Filippo, condottiero e banchiere, le dimensioni, maggiori rispetto al palazzo dei Medici, narrano da sé la sua presenza. Sede signorile, sogno del suo ideatore che non lo vide finito, è stato affiancato per anni da un mercato, dirimpetto.
Volutamente scelta, o meno, poiché gli interni (e non solo) ospiteranno la mostra “Ai Weiwei. Libero”, curata da Arturo Galansino, affermiamo che la base per l’opera è buona. Se fosse una ricetta gastronomica, l’installazione avrebbe questi ingredienti. Classici gommoni, vuoti, che mai riuscirebbero a galleggiare, e non per metafora, ma per la struttura, solcano immobili il palazzo di pietra, dunque luogo fuori il tempo, verso una meta: che non è certo l’Europa.
A essi si assiste dal basso, dalla strada: lo spazio in cui viviamo (almeno il popolo). Nel piano inconscio Firenze, che recita la parte del porto, è la riduzione simbolica dell’anima.
L’opera, insomma, non necessita di immaginazione. Basterebbe contare i morti nel mediterraneo: molto più dei pesci. E non dimenticare gli zainetti di Monaco di Baviera, o i semi di girasole in porcellana di Londra, che con i gommoni vanno a braccetto, i quali dicono al mondo: la fortezza è stata espugnata, le bifore oscurate.
Siamo lontani dalla penisola arancione e chic per il pascolo di borghesi del lago di Iseo; qui si affonda nel grigiore dell’Arno. . Autonomia dell’arte? Non montiamoci la testa.
Forse, ai gommoni, manca soltanto un argomento: la visione. E cioè la coalizione delle peggiori destre europee e mondiali di oggi, e l’arrivo prossimo di forze neonaziste. O forse questa visione è presente, ma ancora diafana. Agli artisti. Perché ai migranti, i protagonisti, il nuovo olocausto inizia a essere chiaro.