It’s a wonderful world recita la personale di Veronica Montanino al MARCA di Catanzaro, un evento che vede per la prima volta il Museo “prender vita” attraverso un trionfo di forme, colori.. e vegetazione rigogliosa. La prima stanza della mostra, come spiegano i due curatori Giorgio de Finis e Simona Gavioli, è infatti il chiostro del museo che per l’occasione si è trasformato in un ricco giardino, un vero e proprio brulicare di vita.
Parterre, opera site secific realizzata dall’artista in collaborazione con l’architetto del paesaggio Michela Pasquali, il garden designer Maurizio Bartolini ed un gruppo nutrito di studenti dell’Accademia di Belle Arti, è overture della mostra, ma ancor di più ne estrinseca e ne svela l’intenzionalità profonda nel suo essere sviluppo incontrollato ed incontrollabile (si noti il prato verticale), nelle su contaminazioni e citazioni colte, memoria e fusione dell’hortus conclus medievale, del tipico giardino francese e del giardino all’italiana col prato pronto, ma ancora nell’essere arricchito da elementi variegati, quali specchi, vasi e tubi, nonché da oltre cento varietà di piante. È un’eterogeneità che rappresenta tout court la ricerca dell’artista, una poetica che parla immediatamente attraverso l’uso del colore espressivo, addirittura trasgressivo, che acquisisce matericità, consistenza, diventando una forma organica che cresce e si sviluppa precipitosamente sulle superfici circostanti.
Simona Caramia.: Parliamo di Parterre, progetto molto articolato e molto ben riuscito. Come nasce l’idea di donare un giardino ad un Museo?
Veronica Montanino: L’idea nasce, come spesso mi accade, da una esigenza che sembra visiva, spaziale, ma poi rivela, attraverso considerazioni a posteriori, avere motivazioni più profonde. Diciamo che la prima cosa che mi ha colpita, entrando nel museo, è stato il fascino di questo spazio del cortile chiuso e aperto, interno ed esterno allo stesso tempo. L’ho letto immediatamente come uno spazio importante, anzi centrale, del museo, nonostante questa centralità non fosse sottolineata in modo particolare. Rinuncio a malincuore all’espressione “dono” che hai usato, e che mi piace molto, ma non si tratta di un dono perché non si tratta di un vero e proprio giardino… è un’illusione, una installazione impermanente e destinata a scomparire. Si tratta solo di un’apparizione, una visione, una suggestione, un’idea. Certo sarebbe stato bello anche immaginare l’impianto di una vegetazione destinata a rimanere e magari a crescere in un modo spontaneo, non pilotato, seguendo le proprie possibilità di sopravvivenza invece che essere indirizzata dalle mani sapienti di botanici e giardinieri. Comunque la permanenza, anche nella chiave della conservazione di quello che vediamo oggi, avrebbe avuto un problema da non sottovalutare per me: si sarebbe trattato di avere a che fare con una realtà a quel punto, mentre io trovo che il senso dell’arte rimanga la rappresentazione. E la realtà si porta appresso un altro problema, ovvero quello di offuscare l’idea-fantasia che c’è dietro. E l’idea-fantasia, afferrabile forse solo se temporanea in questo caso, è un’affermazione molto personale che potrebbe suonare più o meno così: ripartiamo dalla biologia per vincere l’austerità, il rigore, l’intellettualità fredda e senza corpo, la sacralità, l’elitarietà, l’avarizia e il monachesimo estetico con cui l’arte si manifesta spesso al giorno d’oggi, dalle nostre parti più che altrove… il colore è nella biologia, la materia è nella biologia, la moltiplicazione è nella biologia, l’esuberanza, l’abbondanza, la vita, l’idea della trasformazione appartengono alle cose vive. Un punto di vista, come questo – il mio – forse non ha motivo di diventare un giardino permanente. Ha senso che rimanga una sollecitazione e uno spunto di riflessione su un certo modo di pensare l’arte, che è quello che poi si sviluppa per tutto il percorso della mostra. Molte persone si sono confuse su questo dato della temporaneità. Nonostante sia stato comunicato, lo si è interpretato come un intervento permanente ed è una cosa curiosa, che non fa altro che rafforzare in me l’idea che la provvisorietà sia portatrice di un senso evidentemente non scontato.
s.c.: A partire da questo intervento, e non per la provvisorietà legata alla temporaneità, ma per la vitalità che porta con sé l’elemento organico-botanico e per la relativa “germinazione” che caratterizza la tua ricerca, la mostra scardina la staticità dell’istituzione museo, sdoganandolo anche dall’onore e l’onere della – sola – funzione di storicizzazione. Si potrebbe e dovrebbe riflettere sul ruolo delle istituzioni museali ai nostri giorni, su quale sia il loro valore, su quali debbano (o dovrebbero) esserne le finalità generali e particolari. in riferimento al territorio, quindi alla dimensione socio-culturale del luogo, ed alle specificità dello spazio espositivo. Con questa mostra il MARCA apre nuove prospettive interpretative in tal senso, non solo teoriche, ma soprattutto pratiche; prospettive che determinano “ricadute” preponderanti nella fruizione dello spazio, espositivo e non, e nella percezione della mostra da parte del pubblico. A tal proposito ti chiedo quale strategia, se così si può dire, hai usato per entrare in relazione, per “impossessarti del luogo.
v.m: Rispetto alle precedenti esposizioni del MARCA questa mostra ha lavorato forse di più sullo spazio (come d’altra parte aveva già cominciato a fare la personale di Giorgio Lupattelli), ma non credo questo sia sufficiente per affermare che ha avuto il potere di scardinare alcunché. Lavorare in modo site-specific e ambientale è pratica assai comune nel contemporaneo, come ben sai. Per quanto mi riguarda avrei potuto “aggredirlo” il museo con le mie modalità di lavoro che prevedono bombolette, vernici su pavimenti, soffitti e la possibilità di travolgere ogni cosa e ogni superficie in modo infestante, anarchico, come in tanti lavori che ho realizzato altrove. Invece ho capito che sarebbe stato più interessante rispettare la solennità del museo, che per me la sfida e la novità era questa! Di fatto dunque non me ne sono impossessata affatto. E l’effetto credo sia una mostra estremamente rigorosa. Se novità c’è stata, invece, questa è da attribuire senz’altro alle scelte e alla politica della direzione del museo e del comitato scientifico, ma non spetta a me commentarle. Qual è il ruolo del museo oggi? Credo sia un ruolo da equilibrista, perché implica il mantenimento di questa linea di confine che fa dell’arte – prima ancora che del museo – un luogo speciale e diverso, senza fare di questo confine un limite invalicabile. Il museo deve consentire l’accesso, non può aristocraticamente ostacolarlo cedendo alla tentazione di diventare un luogo di culto in cui l’arte è cosa sacra e misteriosa, il cui mistero è custodito a dir poco gelosamente (io direi ferocemente) dai suoi adepti. Perché invece è importante che vi possano accedere tutti? Perché l’arte è davvero un bene comune, slogan a parte. Lo è perché in una società malata di materialismo come la nostra, è di straordinaria importanza rivendicare una dimensione con un valore immateriale come quello dell’arte. L’unica forma tangibile di utopia, perché non descrive a parole la forma “buona” della società immaginata in astratto, come fa la filosofia, ma rende concreto ed esperibile – attraverso mille diverse forme – un aspetto dell’umanità che origina da qualcosa di differente dalle logiche funzionali e utilitaristiche. Questo bene incommensurabile è ciò che il museo deve proteggere e allo stesso tempo rendere visibile.
s.c.: E le mille forme sono certo implementate nel tuo lavoro; un caso fra tutti l’opera che accoglie il fruitore all’ingresso del Museo (precedentemente esposta alla Biennale di Venezia nel 2011), la cui forma sinuosa – seppur nella sua non unità data dall’assemblaggio di molteplici oggetti, ma riecheggiata dalla stessa cromia, il nero – abbraccia ogni cosa, trasportando il fruitore fin da principio in a wonderful world. Altra opera cardine dell’esposizione è Pangea, lavoro che amplifica il campo visivo, inglobando in sé tutto l’esistente fino a contemplarne due stati opposti: realtà e finzione, la veglia ed il sogno. Lisi quei labili confini interpretativi, in Pangea tutto è possibile?
v.m.: Quello che è possibile è immaginare un’opera d’arte totale. È il sogno di molti artisti! Il sogno dello spazio: uno spazio interminabile, infinito, in movimento. Uno spazio totale nel quale sia possibile sperimentare una immersione completa nella pittura, nel colore, nell’immagine. La pittura, e in questo caso l’oggetto, si trasformano in un’atmosfera in cui muoversi. Dunque allo spazio si aggiunge la dimensione del tempo. Il tempo del movimento, il tempo che ci vuole per esperire quello spazio. Non è una cosa nuova, è la dimensione degli affreschi rinascimentali in fondo, ma a monte, l’arte ambientale rievoca addirittura la caverna e le pitture rupestri. Eliminiamo il passaggio culturale del quadro e dell’oggetto e abbiamo la reintegrazione di arte e architettura, ma a monte di pittura e ambiente vitale, se torniamo indietro fino alla grotta. Non a caso Pangea nasce come progetto per la Casa dell’Architettura. Una pittura-scultura che, su invito di Giorgio de Finis, doveva essere abitabile, accogliere cibo, commensali e le lingue di tutto il mondo. Un invito a riunificare il Pianeta sulla base dei valori dell’incontro e dello scambio di conoscenze ed esperienze. Non proprio quello che ci sta regalando la globalizzazione.
s.c.: Ogni tuo intervento si allontana dunque dalla mera utopia: il mondo fantastico che riservi ai fruitori di questa mostra cela in sé infinite possibilità, tutte insite nel reale, volte all’azione, ad un fare tangibile, sebbene – ci suggerisci – sia sempre necessario sognare la realtà, per trasformare le brutture quotidiane.
v.m.: Ti rispondo citando Pessoa: “Perché è bella l’arte? Perché è inutile. Perché è brutta la vita? Perché è tutta fini e propositi e intenzioni”. Una vita in cui tutto è finalizzato all’utile è una vita non solo brutta, ma che non consente nessuna dimensione di socialità. Perché la regola del rapporto con gli altri, se il fine è l’utile, diventa automaticamente la sopraffazione e questo più che brutto è un’immane tragedia! L’arte, che è comunque una realtà che ci appartiene da sempre, dai tempi della preistoria, può “insegnare” alla realtà del quotidiano che una dimensione dell’inutile è esistente, e ci permette di pensare ad una umanità non regolata dalla lotta per la sopravvivenza e dalla legge mors tua vita mea. In questo senso tutta l’arte è politica. L’arte non ha nulla a che vedere con la fuga dalla realtà.
s.c.: L’arte è quindi la via della differenza. Infatti, in mostra vi è anche un trittico realizzato in occasione di un tuo intervento al MAAM, il Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, letteralmente costruito da de Finis.
v.m.: Dipingere i bambini metropoliziani è stata la prima cosa che ho fatto al MAAM, dove ero stata invitata da Giorgio de Finis a realizzare un intervento che inaugurasse la ludoteca destinata a loro. Perciò sono partita dalla pelle di quei piccoli abitanti colorandola con quella pittura che doveva poi invadere i muri stessi dello spazio proprio come una seconda pelle. A posteriori ho capito che esisteva in qualche modo un nesso tra la purezza utopica dell’universo iperdecorativo, esplicitamente ed esasperatamente estetico, ottimistico e ideale del mio linguaggio, e quella purezza utopica che pretendeva di realizzare un Museo di Arte Contemporanea in un’occupazione abitativa multietnica insediata in una fabbrica dismessa e decadente. L’intervento, fedele a quel principio ornamentale portato all’eccesso, tipico del mio lavoro, era un’immagine dalla forma scivolosa, sconfinante sul pavimento, priva di argini sicuri, che si propagava, sottraendosi all’idea di contenimento e controllo, “simile a un virus, per contaminazione” diceva il de Finis curatore. Così prendevo atto, forse in corso d’opera, se non proprio a posteriori, che quel lavoro poteva avere una valenza metaforica sul tema dell’invasività dell’arte e del suo potere sregolato, indisciplinato in quanto “pensiero altro” che può insinuarsi e prendere il sopravvento sulla realtà. Ma forse poteva addirittura evocare l’invasione di quello spazio ad opera di questo altrove/alterità costituita dai metropoliziani stessi. Oltrepassamento, perdita di centro e di confini certi, estensione di uno spazio poco stabile, erano tutti concetti profondamente miei eppure così pertinenti alla situazione e al contesto. Questa espressione che hai usato “l’arte è la via della differenza” non posso che sottoscriverla pienamente! E la differenza che possiamo ritrovare al MAAM non è tanto quella evidente della multiculturalità degli abitanti (che bisogna anche fare attenzione a pensare come differenza perché il rischio di alimentare il razzismo è dietro l’angolo purtroppo) quanto piuttosto una miscela di cose che ha fatto di questo luogo un oggetto di interesse e di studio da parte di media, fondazioni, musei, istituti di cultura e università di tutto il mondo. Tenendo sempre presente che stiamo parlando di una ex fabbrica occupata, e non di un relitto urbano qualunque, possiamo dire che nel MAAM di de Finis molte sono le differenze: innanzitutto quella di pensare che l’arte potesse incidere sulla realtà circostante e sul sociale, ovvero l’idea che potesse “trasformare”. La differenza di usare l’arte e la sua potenza in quanto bene simbolico, non materiale, in un luogo totalmente sopraffatto dai bisogni materiali primari delle persone che vi abitano. La differenza è pensare di donare qualcosa di prezioso, ma cosa? Immagini… La differenza sta nel non aver pensato alla beneficienza o ad una generica solidarietà, ma nell’aver reso gli abitanti occupanti in qualche modo partecipi di un processo condiviso basato su una fantasia. La differenza sta nel fatto che la fantasia è diventata reale come la realtà vera nella misura in cui persone invisibili sono diventate visibili, partecipando allo stesso principio dell’arte che rende visibile ciò che non lo è. La differenza sta nell’aver immaginato un’opera d’arte collettiva e soprattutto un’idea corale di arte. La differenza è che questa fantasia è diventata una barricata a protezione di questo posto, di queste persone e dei loro diritti. Oggi, dopo quattro anni di lavoro e la realizzazione di quasi cinquecento di opere permanenti, è difficile dire che tipo di differenza è stata prodotta… staremo a vedere. L’esperimento è in corso.
s.c.: È evidente che tutta la tua ricerca si muove sul filo teso della superficie – o della tensione superficiale – tra profondità e semplicità. Cosa pensi di voler raccontare al fruitore che ancora non hai fatto? Quali progetti hai in cantiere?
v.m.: La superficie, per come la intendo io, è la pelle e dunque il confine dell’Io. Il luogo in cui il perimetro della mente incontra il mondo fuori da sé e l’altro. È attraverso la pelle che sentiamo e percepiamo gli stimoli che arrivano al cervello. Perciò per me la superficie è già il profondo. È questo che la rende così… complessa direi, anziché semplice, visto che è un intreccio di dettagli, strati, colori che si moltiplicano all’infinito. L’unico elemento semplice del mio linguaggio forse è il cerchio, che ricorre sempre. Attualmente sto lavorando ad un progetto per il Policlinico Gemelli. Ad un lavoro ambientale per l’area bambini della sala d’attesa del nuovo reparto di diagnostica per immagini. Portare l’arte in ospedale trovo che sia davvero una cosa importante, una pratica che si sta diffondendo, di grande valore, e che va nella direzione di un certo tipo di attenzione per il paziente come essere umano, con bisogni ma anche con esigenze. Spero sinceramente che la mia grande macchia multicolore possa divertire i piccoli che aspettano e regalare loro un ambiente meno freddo e impersonale.
E mentre attendiamo che venga ultimato il nuovo progetto a Roma, a Catanzaro un nuovo momento di incontro-confronto con l’arte di Veronica Montanino sarà offerto dalla presentazione del catalogo della mostra, il prossimo 30 aprile nella sala panoramica dell Museo MARCA.