«Scusi … Ambizio! Io non ce la faccio più. Mi fermo qui, riprendo fiato e me ne torno indietro. Ci vediamo poi al ristorante di Cinecittà». Ambizio si ferma. Si volta, mi guarda con un’aria sconsolata, quindi allarga le braccia e scuotendo il capo commenta amaramente: «Che artistar!». È un momento. Subito dopo riprende ad urlare nel megafono e a correre dietro a un gruppo di bersaglieri, che si inerpica lungo uno scosceso viottolo di campagna. Sta girando una delle ultime scene del suo ultimo film, già candidato a Cannes.
È quasi mezzogiorno e sono ormai tre ore buone che questo sedicente artistar corre su e giù per il pendio, gridando ordini nel megafono. C’è sempre qualche particolare che non lo convince. I ciak si susseguono. Avrà girato venti volte la stessa scena. Anche le comparse del film cominciano a sfiatare con la lingua a penzoloni. Lui niente. Altri tempi, altre generazioni, altre cocaine.
Mentre stava nascendo una critica cinematografica velleitaria, degna della sua stessa strategia, il gruppo di Ambizio tentò di imporsi con realizzazioni concrete nel clima di ricerche e di entusiasmi che segnava il passaggio dal «muto delle ambizioni» al «sonoro delle velleità». Una performance delirante di qua, una Autobiografia ambiziosa di là, Prima della Prima del successo: Ambizio continua a giostrare fra i temi attuali, il film in costume e la commedia moraleggiante; continua a rappresentare l’espressione più autentica di certi sentimenti della classe sociale che gli fa comodo, così nei toni patetici e magniloquenti, come negli accenti dimessi. Dalle lontane battaglie giornalistiche ai suoi film di costume, compresi i più recenti, Ambizio non ha mai cessato di affermare certe sue posizioni teoriche, che vanno dal riconoscimento dell’autore del soggetto e della sceneggiatura quale creatore del film, al dispregio dell’arte per l’arte.
“Io faccio un film per centomila persone, non per iniziati: centomila persone e centomila Ambizio”. Non ricordo quante volte l’ho sentito ripetere e difendere questa sua posizione con l’entusiasmo e la foga dell’arrivista, l’ambizione di un capopopolo. In effetti, Ambizio è un tribuno della plebe che lavora nell’arte del cinema e ha studiato per puro caso tra Pontedera, Varsavia e Roma, nel territorio della performance.
Sto pensando a questo mentre l’aspetto seduto a un tavolo del ristorante. Quando arriva, sempre di corsa, come lo vede entrare, un cameriere lo precede servendogli un piatto di minestra fumante.
“Presto, presto!” dice sedendosi a tavola“ che non abbiamo tempo da perdere”. Sono costretto a mangiare prima di poter proferire una sola parola, tanto quello che voglio dire Ambizio lo sa già.
Il termine “velleità”, da cui deriva l’aggettivo “velleitario”, non è voce molto comune nella lingua italiana. Nell’uso corrente della parola, ci si riferisce ad un’aspirazione indeterminata, vaga e non definita, delineata da un desiderio non particolarmente intenso e rivolta ad un oggetto o un fine che si percepisce essere non propriamente raggiungibile. Velleità potrebbe suscitare anche l’idea di un qualcosa di illusorio e pietrificato dal potere. Un esempio potrebbe essere quello espresso dalla frase: “vorrei che regnasse la mia opera d’arte”. In un certo senso, questa eventualità sarebbe teoricamente possibile: un giorno tutti gli artisti potrebbero comprendere che la guerra per l’affermazione della propria opera è sbagliata e che potrebbe essere più ragionevole cooperare armonicamente. Per il momento, tuttavia, questo regno di pacificazione sistemica non esiste ed è solo un sogno pensarlo. Anzi, intanto, la guerra continua. Inoltre, la realizzazione di un simile desiderio non è sentita come qualcosa di direttamente dipendente dalle nostre sole forze; percepiamo la necessità di una presenza esterna, di un potere superiore che abbia la facoltà di cambiare le cose e creare un nuovo sistema dell’arte. Questa riflessione fa comprendere quale sia l’idea suscitata dal termine “velleità”, nel suo uso comune. Conseguire il potere nel sistema dell’arte significa raggiungere il Leviatano (termine della volontà sistemica) che è insieme corruzione, disillusione e narcisismo fine a se stesso. Sostenuta dalla Grazia del Sistema, la volontà non si configura più come “velleità”, cioè come volere debole, ma essa in un certo senso viene nobilitata e all’artista viene concessa la possibilità di conseguire le realtà ultime, oggetto del suo desiderio. Emerge la necessità di una presa di coscienza: l’artista deve essere consapevole di ciò che gli è concesso raggiungere e ciò che è fuori dalla sua portata e che può conseguire solo per dono di «alterazione sistemica» e di armeggiamento nell’industria culturale. A volte, tuttavia, l’artista tenace vuole fare l’impossibile e spingersi oltre il limite velleitario, confidando solo nelle proprie capacità di strategia politica. Emblema di questa tipologia di artisti e personificazione delle loro passioni e del loro desiderio dell’infinito potere è Ambizio Giosatti. Abbiamo visto come egli sia un personaggio estremamente esigente, capace di condizionare altri artisti ed altri curatori verso il perseguimento dei suoi obiettivi. La tenacia che muove Ambizio non lo assolve dal fatto che egli abbia voluto oltrepassare un limite invalicabile: il confine tra la natura dello scrittore, del curatore, del politico, del burocrate, dello stratega, del pubblicitario e quella dell’indipendenza critica (che poi si manifesta strumentalmente come dipendenza). Egli, con le sole forze raccomandate e protette, ha “desiderato di vedere troppe cose”, convincendo altri a seguirlo e conducendo se stesso e i suoi seguaci al disastro amministrativo. Sebbene Ambizio si presenti – e in un certo senso rappresenti, l’immagine di ciò che di più differenziato esiste nell’artista-strategico e manierista – con la volontà di ricongiungersi ai potentati e conoscere tutti i misteri dell’affermazione artistar, fino ad ottenere la fama assoluta e l’affermazione incondizionata, egli è un malfattore, un delinquente risoluto. La sua colpa è quella di aver confidato troppo nelle capacità familistiche e di non aver avuto fiducia nella liberazione che ha sbandierato nelle sue carte di credito (leggi anche libri, documenti e cataloghi). Ambizio pecca di “incontinentia” (non sa resistere alle passioni che ardono in lui e che lo spingono in legami pericolosi), “tracotanza” (è eccessivo nella sua temerarietà di esplorare il magazzino degli inquinamenti) e “ira” (la sua dote peculiare che è l’ingegno, viene utilizzata a danno di altri). Il folle volo di Ambizio non può essere considerato come un’esplicita offesa a ciò che egli stesso dice di voler sostenere. Ambizio non pecca di hybris, poiché pensa di agire in nome della buona arte. Egli intraprende il suo ultimo viaggio in rappresentanza di tutti gli artisti che aspirano ad occupare le stanze dei bottoni (compreso il sistema dei bottoni flessibili). Non bisogna dimenticare, però, che sebbene le sue intenzioni siano, apparentemente, le più giustificate e mascherate, egli implicitamente sta corrompendo la natura del sistema, quella dei suoi compagni e sta recando una grave offesa alla cordata stessa di cui si avvale. Ambizio e la post-arte violano inconsapevolmente l’ordine sistemico e la disarmonia e per questo vengono puniti dalle forze del silenzio e dell’occulto, che si miscelano nel vastissimo mondo ipermediale e incontrollabile. La strada, ormai, diventa impraticabile nel momento in cui l’artista e il curatore decidono di intraprendere il viaggio in modo onesto e solitario, senza un “aiuto consorziabile” che guidi il suo cammino. I “trans-consorzi strumentali” non si limitano alla ricerca scientifica e non hanno come principio l’aiutare l’artista a trovare la sua strada, grazie all’ausilio della tecnologia. Il loro intento è rifondare l’artista alla base, mescolare l’artista alla strategia sistemica, mutare radicalmente il destino dell’esposizione e dell’espositore. La figura della velleità è ben presente nei loro intenti: vorrebbero condurre l’artista alla felicità. Essi non hanno in effetti né i mezzi per realizzare un simile progetto, né sembrano curarsi dell’aiuto sistemico. Il loro agire è destinato a infrangersi come le architetture dei Palazzi Espositivi e i loro sforzi editoriali non sono altro che illusioni fallaci, che però conducono i giovani artisti e il sistema artistico dominante in serio pericolo. Non bisogna trascurare il fatto estremamente rilevante che il destino dell’artista non sia quello di restare “rinchiuso dentro il proprio sistema”, accontentandosi dei beni che gli sono attualmente disponibili, ma è quello di solcare altri orizzonti della conoscenza (l’artista è aperto – naturalmente – verso la Trascendenza). Ciò è possibile solo confidando in un aiuto ultramondano che innalzi l’artista, “trasmutandone” la forma e permettendogli di raggiungere ciò che è impossibile, ossia la “clandestinità democratica e situazionale”.
La tesi, non recente ma lungamente riflettuta, a sottolineare la lungimiranza e l’arrivismo di Ambizio, è che «la pratica artistica e gli apologeti che la legittimano, come oggi il Potere la intende e come noi abbiamo accettato che sia, non è più «cultura semisimbolica», bensì un «depurato strumento per svigorire le coscienze e renderci conniventi con il sistema dell’arte così com’è»: sta in questa definizione il nuovo narcotico o oppiaceo del “tutti artisti e tutto arte” da cui siamo continuamente pervasi e sommersi, per essere pian piano trasformati in «spensierati lotofagi». È forse anche legato a questo aspetto pervasivo l’incapacità di riconoscere questa gabbia, una comunanza in larga scala di situazioni che porta a un offuscamento della percezione: sono allora tanti i destinatari di questa strategia, compresi quelli della sua stessa generazione, che in questi giorni tendono a rispondere ad Ambizio, dalle stesse pagine di Sole 24 e ad “affermare il contrario per confermare il simile”, che si apre a interrogazioni che esulano immediatamente dal saggio stesso e si trasformano in domande urgenti e non rimandabili, perché è «l’arte di regime la vera grande industria del nostro tempo, nel mondo occidentale» e, come ogni grande industria, deve oggi essere enfatizzata e mafiosamente supportata (basti pensare, per farsi un’idea dei possibili coinvolti nella discussione, a docenti, pubblicisti vs curators, amministratori, funzionari e aziende di cinema, teatro, festival, radio).
Leggendo il libro tornano alla mente episodi letterari di quei memorabili affreschi della consorteria e della contro-consorteria sistemica; il nuovo giornalista assoldato, in un articolo di parte che compone la strategia tra le Illusioni perdute, pone la propria attenzione proprio sul mondo dell’arte cinematografica di Ambizio, certo diverso per caratteristiche rispetto a quello legittimato dalla Quadriennale (parentesi istituzionale che lo vede dirigente), ma tanto sorprendentemente simile per le dinamiche e i meccanismi che ne guidano il funzionamento. Una “rubrica e una controrubrica di comando” capace, quindi, di minacciare con efficacia ancora oggi chiunque si trovi a lavorare o frequentare questi ambienti. Protagonista della vicenda è il grandioso e tragico critico di sistema isolato e competitivo, un giovane scrittore di provincia mosso da un insaziabile desiderio di gloria, che decide di trasferirsi a Roma per trovare soddisfazione e successo. Lì tenterà di introdurre le sue strategie, ma incontrerà solo insuccessi, finché, decidendo di ripiegare sul giornalismo politico e culturale, conquisterà una certa fama di “nuovo carrierista”. Ma anche questo momento è destinato a durare molto poco, perché i mezzi che utilizza per raggiungerlo, su tutti un disinvolto trasformismo politico e una cieca obbedienza alle leggi del mercato, sono gli stessi che lo porteranno alla rovina e al ritorno nella provincia da cui era venuto. L’epigono di Ambizio, nell’arco dei suoi giorni di gloria, impara molti segreti per farsi benvolere, come quando l’assessore di turno gli spiega quali siano le motivazioni, assolutamente non estetiche, che possono portare a stroncare una carriera artistica o critica, a ignorarlo oppure osannarlo. È facile ravvisare in quelle pagine le strutture e i vizi di molti giudizi e strategie di arrivismo odierno. Già solo raccontando questi piccoli aspetti della vita dell’epigono di Ambizio, il riferimento all’oggi appare abbastanza scontato, con recensioni che sempre più assomigliano a omaggi, la sorprendente notizia che non esistono mostre che possono essere valutate insufficienti, dinamiche espositive segrete che non sono più tali e la consapevolezza dell’esistenza di un forte fenomeno di appartenenza, che porta a riconoscersi, ed essere riconosciuti, come parte di un gruppo ben definito, un gruppo che si deve sovrapporre all’altro e che deve tentare la lotofagia storico-sistemica.
Lo tsunami del millennium bug ha cancellato la storia e la critica del sistema e del contro-sistema, le vendette divine, il diluvio universale e ha rilanciato alla grande la speculazione giovanilistica contro qualsiasi storia che per cronologia è stata presente prima di loro. Sono morti in tantissimi in Italia, ma le gallerie e le curatele sono di nuovo in piedi, il prezzo dei contrafforti è salito e la clientela è aumentata e si è normalizzata, è più stabile, non più solo turismo espositivo ma anche quello storico-familistico (denominato residenze).
Gli annunci della fine del sistema dell’arte sono una pacchia per le agenzie espositive, una strategia del positivo nel negativo, una tattica di rimessaggio, centinaia di occultamenti ancora insepolti e il boom panoramico trionfa.
È una filosofia che ne compendia cento, tutte consolatorie: mors tua vita mea, carpe diem, lassù qualcuno ti protegge. Chi se la sarebbe aspettata una umanità di giornalisti, mercanti e pseudostorici arrivisti e voltafaccia! Ma in fondo è normale che sia così, che sia una umanità che dimentica subito, fatalista, che campa sul calcolo delle probabilità, che va in Fiera il giorno dopo l’occultamento storico, obbediente alle disposizioni anti-storiografiche, il controllo alla partenza è quasi una festa: vietato portare libri di storia e di critica, come se non fosse una precauzione contro gli atti di liberazione che fanno a pezzi l’intera gaia comitiva, ma tutti ci ridono su. Il sistema dell’arte, che ha paura anche della sua ombra, non ha più paura della morte delle esperienze storiche già capitate nei manuali, non ha più paura dell’occultamento di massa, si è abituata al pensiero che essere occultati in gruppo è meno doloroso. E così la scienza più fallimentare del creato è quella politico-strategica di Ambizio, che ha un bel gridare dalla sera al mattino che le riserve esposizionali si consumano, che le strategie si sciolgono, che l’aria della storia e della critica che vuole il potere diventa, comunque, irrespirabile, che mancheranno manuali per registrare le loro iniziative di legittimazione. La consolazione storiografica è già in marcia, già centinaia di curatori e di nuovi artisti pensano a un «nuovo esposizionismo spaziale». Tra le sacche menzognere dell’Operaviva c’è già chi lo prenota, un milione di promesse per provare un viaggio nella «fuffa spaziale» dell’arte italiota. Non c’è, in linea di massima, qualcosa di negativo nell’unione in gruppi, anche se esiste la possibilità che questi si trasformino pian piano in consorzi totalmente chiusi e autosufficienti, dove dunque non esiste alcun bisogno di opporsi alle presenti condizioni e, di conseguenza, non c’è necessità di valutare o di fare distinzioni: basta accettare le cose così come sono. È a questo meccanismo che la crisi stessa del sistema, inaugurata da Ambizio, fa riferimento nel suo operato, dove mostra come questo modo di pensare non sia solo la prassi nel mondo dell’arte, ma anche negli ambienti politici e sociali, sottolineando come ci sia stato un assopimento collettivo: l’arte come forma di potere diventa allora un simbolo da sventolare in festival e raduni di intellettuali, svuotata della sua natura più radicale e offerta come fenomeno di “emancipazione privata”.
“Primo: Perché almeno per quanto riguarda il protagonista maschile, il soggetto impone la presenza di un giovane, non tanto giovane, come dice il titolo stesso. Allora – dice Ambizio – ho preferito ricorrere ai giovani velleitari come me, a due attori non alle prime armi, ma nuovi. La presenza di attori famosi avrebbe forse snaturato la storia nella semplicità con cui la vuole raccontare. Come giudico questi ragazzi? Ti dirò che li giudico come li giudicano tutti quelli che hanno lavorato con loro e che hanno visto il film anche se in un’edizione non definitiva e approssimativa: molto più che ambiziosamente. A me personalmente gli Ambiziosi senza opera d’arte sembrano veramente bravi e simpatici. Potrei dire molto di più, che spesso mi hanno quasi entusiasmato. Ma questo, si capisce, preferisco che costringiamo il pubblico a dirlo”.
“Ma perché ha fatto questa ambita scommessa con il Nulla ulteriore?”
“Perché è una storia di ostinazione verso la morte dell’arte. C’è tanto bisogno di morte oggi nel mondo. Che cosa sarebbe l’arte senza l’analogon della morte, della sua impareggiabile morte sempre fresca e sempre rinnovata? E la morte del cinema, della performance, delle esposizioni e della politica? Hai mai pensato a una persona che muore senza ambizione, senza ambire ad un potere? La mia performance è appunto una storia di ambizioni dopo la morte dell’arte, ma non per questo melodrammatica e languorosa: al contrario. Pensaci bene: c’è ancora tanto posto per una storia di post-morte dell’arte. Perché, mi domando, dovremmo ancora e sempre rotolarci nel pantano di certe performance? Guardiamoci attorno: c’è tanta ambizione intorno a noi, ci sono ancora tanti giovani che si danno alla global art in modo pulito, ci indicano la strada giusta alla strategia dell’arrivismo, quella che porta ad una chiarezza, a una velleità di vita che cinema e arti visive molto spesso fingono di ignorare”. “Quelle verità velleitarie – che arricchiscono l’arte e chi ha la fortuna di comprendere le strategie e il «coraggio conformista dell’anticonformismo»
– oggi possiamo addirittura ammetterle”.
Mentre parla, Ambizio si entusiasma e si accalora. Si è pure dimenticato di mangiare e la minestra è ancora quasi tutta nel piatto. A un certo punto guarda lo smartwatch e scatta in piedi come una molla.
“È tardi! Ti saluto, devo scappare”.
“Ah, dottò! Che nun finite de magnà?” chiede il cameriere con aria esterrefatta, mentre lo vede uscire.
“Non ho tempo, non ho tempo! Un’altra volta”. Ed è già sparito.
Chi ha detto che a tavola non si diventa ambiziosi?