Una mostra fatta di fotografie che non sono fotografie.
Qui i fatti: Dario Picariello, artista irpino classe 1991, ha realizzato per questa personale a TRA – Treviso Ricerca Arte una serie di scatti presso un sito di archeologia industriale alle porte di Treviso. In queste foto alcuni giovani modelli anonimi (Picariello ci ha già abituati a laconici corpi coperti da pochi altri veli se non maschere sui volti) sono stati ritratti nelle sale abbandonate della fornace Guerra Gregorj. Un luogo che vide protagonista, a cavallo del Novecento, Gregorio Gregorj, imprenditore-mecenate che provò a coniugare la manifattura industriale di laterizi di altissima qualità per l’edilizia con una produzione laterale e artigianale di stampo artistico. I progressi tecnologici garantiti dal cosiddetto forno Hoffmann, a ciclo continuo, (da cui il titolo del progetto) permisero al proprietario Gregorio Gregorj di realizzare la cosiddetta Sala degli Artisti, enclave artistico in cui, fra gli altri, si mosse anche un giovane Arturo Martini.
E fin qui le foto così presentate rimangono foto, pur se ambientate in un luogo denso di storia e storie. Il guizzo che le emenda da puro segno indicale di una realtà per quanto suggestiva è insito tuttavia nella loro genesi (il progetto creativo prima del click che congela il referente in un “è stato”, un “interfuit” di barthesiana memoria, temporalmente definito) ma anche nella costruzione del percorso di mostra a cura di Stefano Volpato.
Nella sede espositiva di Ca’ dei Ricchi a Treviso non troviamo cornici o asettici pannelli appesi alle pareti infatti, quanto piuttosto impronte di una silente presenza industriale, basata su una produttività a ciclo (anzi, fuoco) continuo, viatico per la parallela creazione artistica: su un binario lungo 12 metri sono dislocati stativi e pannelli riflettenti, entro i quali vengono montate le già citate fotografie, stampate su tela o pvc.
Le fotografie, anzi queste fotografie, sono altro da se stesse anche perché nell’iter creativo della loro realizzazione hanno portato alla rifunzionalizzazione il forno Hoffmann che per diversi decenni ha plasmato laterizi e rivestimenti per uso edile, grazie a diversi workshop. Questo processo di riattivazione vitale nulla ha a che vedere con la fotografia intesa come referto che immortala un momento per sempre.
Queste fotografie sono allestimenti dunque e non semplici scatti, che portano fuori dal binario dell’ordinarietà sia gli elementi tipici del backstage dello studio fotografico che le tracce di una storia ormai sepolta.
Queste fotografie incarnano un intricato crocevia identitario, proprio perché non sono opere che si concludono semplicemente nel climax dell’otturatore chiuso dall’artista, non sono pure tracce di un momento finito, non sono pura ricerca estetica e formale (sebbene la composizione nello specifico di Deposito ricordi buona parte del nostro patrimonio storico-artistico a matrice iconografica).
Queste fotografie sono altro da sé perché latrici di una processo di riattivazione funzionale di ciò che è stato e che sembrava sepolto in un passato che non può ritornare. Finché quel click non “è stato”.
Recensione di Elena Tonelli