Jessica Iapino (Roma, 1979), tra le prime artiste a nascere con la rete nel DNA, tanto da ribadirne già nel 2010 – con riprese simultanee, citazioni, voci e volti – prepotenza, sensibilità e rischi, torna, con più calcolato e enciclopedico ritmo, ad affrontare questo tema, in tempi odierni più apparentemente alla portata di tutti.
In quattro sale il suo percorso scandito da colpi secchi, simili a martellate, metafore dalla doppia valenza: Jessica Iapino sembra possedere uno ‘shining’ che le permette di vedere le cose, così autobiografiche da divenire dolorose, e simultaneamente, al contrario, gelide metafore di altrui vizi e comportamenti. Ambiguità o bivalenza in ogni stanza, in ogni dimensione emotiva e con qualsiasi mezzo formale. Il suo ‘tema’ insegue però la strada di un’unica ‘costruzione identitaria’, come scrive Lori Adragna, curatrice della mostra: “ri-nascere, ri-stabilirsi con una possibile funzione altra che le consenta di ritrovare senso e anche di assolvere il prossimo e di autoassolversi”.
La partenza nella stanza dell’identità Genotipica, un autoritratto in video: è Jessica stessa cui la bocca viene tappata da una maschera in alginato bianco. La scuote ma non se ne libera, come una cane che gioca con l’osso, desiderandolo e detestandolo al tempo stesso. Nessuno interviene a salvarla, nei suoi occhi un’impotenza tutta mosse e scosse, fino alla liberazione dopo un tempo, infinito o brevissimo: esattamente sette minuti. Ora Jessica è libera e la gommosa maschera un’ombra caduta a terra e fotografata nella polvere.
Al secondo step è lei che guarda altrove, con un’identità altrui che diventa (forse) ‘sacra’: il ritratto-scultura di porcellana del celebre avvocato Giulia Bongiorno, ricoperto di foglia d’oro zecchino, sacralizzata e appoggiata su due chiodi di ferro di cristiana memoria. Non sappiamo, nè sapremo, se per l’artista è un idolo o un nemico: certamente resta un doppio rimando dal sapore ambiguo. Nella terza stanza la performance che rimanda all’identità sociale: il nostro straziato stivale, l’Italia, steso a terra in forma di donna, immobile, ingioiellata con tre bronzi geografici, ma ancora una volta interpretabile poiché dormiente, esausta, viva o morta.
Infine la possibile soluzione, secca, asciutta e finalmente innocente: l’installazione di libri bianchi dal titolo My Name is Omar. Scrive l’artista: “Uno stato “bianco e nero” dove si è liberi di mostrare ciò che si vuole mostrare di sé e non solo ciò che gli altri vedono”. Tutte le pagine sono da riscrivere, così come la propria identità, contrassegnata da un titolo con un nome, voluto da qualcun altro o con la volontà di essere definita altro da se stessa? Quattro tappe che diventano anche un giallo ad incastro, dove individuare vittime e (virtuali) assassini, fantasmi che traboccano da un sistema invisibile ma inevitabilmente schiacciante e fuorviante, nessuno ancora sa quanto celestiale o deleterio.
Claudia Colasanti
Interno 14
Via Carlo Alberto 63 – Roma
La mostra è terminata il 18 marzo 2018