“Il museo non può essere unico e uguale ovunque, secondo generali principi standardizzati, ma, nel rispetto di regole tecniche riconosciute le migliori dallo studio scientifico di problemi di conservazione degli oggetti, deve assumere di volta in volta il carattere che il suo patrimonio e la sua storia esigono.”
Basterebbero, forse, queste parole di Franco Russoli (Firenze 1923 – Milano 1977), primo museologo italiano, direttore della Pinacoteca di Brera e autore di saggi importantissimi sul tema Museo, a farci comprendere il senso dell’operazione sottesa alla mostra Carta Bianca che, per certi aspetti, sembra veramente raccoglierne la lezione. Avverso all’idea di Museo come tempio del tesoro e di opera d’arte come miracolo o feticcio, Russoli ha sempre indirizzato i propri studi al concetto d’intesa fra i vari musei di una città, a quello di rete, con il fine di accorciare le distanze fra specialisti e chiunque desiderasse essere «politicamente cosciente del suo ruolo nella società in cui vive». A distanza di decenni dall’operare dello studioso fiorentino, il primo ad aderire alle iniziative dell’ICOM e dopo la nascita della Nuova Museologia rappresentata da Henrí Riviere, oggi le istituzioni napoletane sembrano davvero avere consolidato la loro collaborazione. Ponendosi come produttori di cultura in una prospettiva unitaria, così come auspicato da Russoli (ricordiamo che la mostra a Capodimonte s’inserisce nel programma già avviato con Pompei@Madre Materia Archeologica) esse hanno anche, allo stesso tempo, inteso l’opera d’arte quale interlocutore sempre attuale.
Ecco allora che, in quest’ottica, Carta Bianca appare un’operazione creativa e sperimentale al contempo che, nelle intenzioni di Sylvain Bellenger direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte e Andrea Viliani direttore del museo Madre di Napoli, ideatori del progetto, nel chiamare in causa eterogenee personalità internazionali del mondo scientifico e intellettuale e chiedendogli di dare lettura del Museo e delle sue collezioni, hanno inteso richiamare l’attenzione sulla polisemia e polifonia del museo contemporaneo, sulla sua funzione formativa e culturale, oltre che sui temi relativi alla visione e alle sue molteplici elaborazioni e interpretazioni. Il tema è certamente ambizioso e preme simultaneamente su un nodo molto difficile da districare, ossia il senso di verità che aleggia sul passato e sulla Storia attraverso una raccolta, ma che in realtà rappresenta soltanto una porzione di esso, scientemente selezionato e percettivamente univoco. In sostanza, la risultante nel presente di quello che noi immaginiamo essere la nostra cultura è il frutto di una specifica visione generatrice ineluttabile di precise e inalterabili gerarchie.
Cosa accadrebbe allora se alle visioni di Capodimonte, quelle della Collezione Farnese, nucleo fondante del Museo, della Collezione d’Avalos, della Galleria dell’Ottocento, del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, di Arte Contemporanea si sovrapponessero quelle di Laura Bossi Régnier, neurologa e storica della scienza, Giuliana Bruno, professore di Visual and Environmental Studies, Harward University, Gianfranco D’Amato, industriale e collezionista, Marc Fumaroli, storico e saggista, membro dell’Académie française, Riccardo Muti, direttore d’orchestra, Mariella Pandolfi, professore di Antropologia, Université de Montréal, Giulio Paolini, artista, Paolo Pejrone, architetto e paesaggista, Vittorio Sgarbi, critico e collezionista d’arte, scrittore, e Francesco Vezzoli, artista? Dieci, non tutti esperti del settore, considerati soprattutto come visitatori?
Accadrebbe che l’idea stessa di Museo si ritroverebbe riconsiderata secondo criteri inediti e inaspettati. E così è successo. Sebbene ai dieci fosse stato inizialmente chiesto di selezionare altrettante dieci opere ciascuno fra le oltre 47mila conservate, non tutti hanno risposto ossequiosamente all’invito originario, mettendo in campo una sincera libertà dettata dall’atto di massima fiducia ricevuta. Facendo proprio il detto Carta Bianca ogni neo “curatore” ha agito nelle dieci sale messe a disposizione dal museo, posando il proprio sguardo talora su singoli dipinti talvolta interagendo direttamente con lo spazio, ma comunque e in ogni caso attivando nuovi e diversi dispositivi di visione.
Incontriamo così le opere di Lotto, Parmigianino e Guido Reni, capolavori della Collezione Farnese, sovrapporsi alla storia biografica e professionale di Vittorio Sgarbi, scelte dallo storico dell’arte come nodali ai propri percorsi educativi; o quelle di Bernardo Cavallino, Massimo Stanzione e Jusepe de Ribera della Galleria Napoletana, a Capodimonte dalle soppressioni in poi per ragioni prudenziali, sulle quali si concentra Marc Fumaroli interessato alle storiche dicotomie povertà e ricchezza. Interessante è la proposta messa in scena dall’architetto Paolo Pejrone che ha ragionato sul concetto di paesaggio e sulla sua visione, aprendo un passaggio su una parete dietro la quale si cela una finestra che, incorniciato e delle dimensioni di una tela, mette testualmente “in quadro” – se così si vuole dire – l’autenticità della natura del Real Bosco, aprendo contestualmente riflessioni sul tema della rappresentazione.
La natura, ma questa volta sciolta nell’atavico dialogo uomo e animale, è il tema della sala organizzata da Laura Bossi Régnier la quale si è servita delle opere di Agostino Carracci e Paolo de Matteis ricche di riferimenti iconografici sull’argomento talvolta curiosi e non sempre facili da decifrare all’occhio contemporaneo. Alla sfera dell’emozione si è rivolto, invece, Gianfranco D’Amato, interessato a fare emergere quel sentimento che spesso muove l’agire del collezionista, frequentemente attratto sia da opere di arte antica che contemporanea, prova ne è data dalla sua personale scelta dove tuttavia spiccano per empatia i nomi di Carlo Alfano, Louise Bourgeois e Mimmo Jodice. Dal tempo del sentimento si passa a quello della dissonanza nella visione offertaci da Mariella Pandolfi che riflette sul tempo indefinito dell’evento, mostrandoci le innumerevoli meta-picture presenti nell’arazzo della Battaglia di Pavia e La strage degli Innocenti di Matteo Di Giovanni, nel Perseo e Medusa di Luca Giordano, nel Rinaldo e Armida di Annibale Carracci, cui si affiancano armi e armature, e altri oggetti che movimentano e spezzano simultaneamente quel senso di fiction del quale ci troviamo magicamente partecipi.
Manufatti, vasellame e miscellanea conservata nei depositi, compongono la narrazione messa in scena da Giuliana Bruno, una mirabile orchestrazione di oggetti generatori di una sinfonia mai sentita (vista) prima e che paradossalmente si pone in contrasto alla scelta effettuata da Riccardo Muti. Se dal maestro ci si aspettava una polifonia visiva coerente al suo percorso professionale, si rimarrà sopresi nello scoprire che la sola opera da lui considerata per il nuovo racconto del museo è la Crocifissione di Masaccio, attraverso la quale ci invita a condividere l’inspiegabile senso di attrazione che talvolta si prova di fronte ad una particolare opera d’arte. Infine, sono sorprendenti le risposte attuate dai due artisti invitati da Bellenger e Viliani: Giulio Paolini e Francesco Vezzoli. Il primo ha creato un’opera nuova che idealmente, secondo la sua visione, contiene tutte quelle conservate a Capodimonte, rinunciando, come ha egli stesso spiegato: «alla messa in scena di quel ‘museo personale’ che mi era stato consentito di realizzare per privilegiare invece un punto di vista teorico: formulare una sintesi assoluta, ancorché infondata e insostenibile di un’idea dell’arte». Il secondo, invece, ha selezionato dieci coppie di busti disponendoli lungo un corridoio l’uno di fronte all’altra e dando vita ad un immaginario gioco di rimandi di sguardi impossibili perché congelati nella dimensione immutabile della scultura. Qui troviamo un gesso del Canova che raffigura la madre di Napoleone Bonaparte e Apollo e Marsia di Luca Giordano fino all’Autoritratto come Apollo che uccide il satiro Marsia dello stesso Vezzoli.
In conclusione, cosa farebbe ciascuno di noi se ci fosse offerta Carta Bianca? Se potessimo vivere il museo e le sue opere come qualcosa di sempre attuale come auspicava Russoli? Ebbene Capodimonte, dopo questa esperienza, ci invita tutti a pensare all’undicesima sala, proponendo sui social media la nostra personale e fantasiosa interpretazione del Museo. Finalmente potremmo tutti pensare a un museo senza muri come quello di André Malraux, a uno in miniatura come fece Marcel Duchamp, a un museo-giardino come quello di Daniel Spoerri o dedicato alle ossessioni senza fissa dimora come quello che realizzò Harald Szeemann. In fin dei conti la pratica del collezionismo, anche se non ne abbiamo piena coscienza, è una delle più antiche del mondo, è semplice e puro Imaginaire.
La recensione CARTA BIANCA Imaginarie di M.Letizia Paiato è pubblicata sul n. 266 di Segno
CARTA BIANCA Capodimonte Imaginaire
fino al 18 giugno 2018
Museo Nazionale di Capodimonte
Via Milano 2, 80131 Napoli
http://www.capodimonte.beniculturali.it