Per considerare il corretto rapporto tra arte e natura, dobbiamo immaginare, su un piano, due semirette che, aventi la stessa origine, dirigono il proprio “sguardo” all’infinito per conto proprio; e cioè: esse sono sempre più vicine laddove spartiscono l’invisibile punto che le ha generate, e sempre più distanti agli estremi.
Ebbene, questo essenziale schizzo costruito mediante proposizioni può, a ragione, rappresentare quella famosa e triste vicenda sul binomio tra due meravigliosi campi dell’esistenza: la natura da un lato e l’arte e l’uomo dall’altro; una vicenda ridotta all’indagine del concetto di μίμησις (mimesi), che nella storia (diciamo nella “farsa”) del pensiero artistico-culturale è stata prima verificata, giustificata, poi presa a modello, successivamente rigettata, e poi ancora ripresa a modello per rigettarla.
Adesso, proprio adesso che la natura sta per essere distrutta definitivamente, soprattutto dopo un secolo e mezzo di strafare, e si cerca di correre ai ripari per esempio differenziando o pensando alternative all’energia, mentre, allo stesso tempo, si producono più indifferenziata ed energia del reale bisogno (un gioco comicamente beffardo), oppure riducendo e mutando i consumi, tuttavia all’interno di un’economia che è fondata sul consumo (e anche questo è “geniale”), adesso, dicevamo, pare che l’umanità si stia accorgendo della presenza della natura, oltre al proprio delirio, ammettendo finalmente che essa abbia dei limiti di sopportazione.
Malgrado questo, la natura – nella perversa mente umana – è ancora una crisalide, un concetto ancora da concepire, incorniciato da piccole logiche da discount, aventi la stessa confusione di uno sbronzo bordello di periferia: il ripristino dei sacri ritmi cosmici nei precari ritmi sociali, la filosofia della natura di epoca nazista, l’ecologia fricchettona degli anni Settanta, l’ambientalismo chic minimale, il compostaggio altoborghese, le ultime frontiere dell’architettura e dell’ingegneria “verdi” pentite di se stesse, la neurobiologia vegetale (i quali hanno scoperto che le piante parlano, cantano e ci dicono quanto siamo scemi)… tutte inserite sul solco dei cacofonici motivetti tanto canticchiati che auspicano il cosiddetto “ritorno (speculativo) all’agricoltura”, l’applicazione delle care etichette del biologico, il fascinoso sistema sinergico, la sterzata della permacultura, l’effetto biofilia, ecc., vaghe “atmosfere” le quali somigliano a organizzazioni ecclesiali composte da simpatici adepti garbatamente isterici.
Ammenoché tale cocktail non sia una trovata pubblicitaria global, una trovata per far consumare anche coloro che sono devoti al recupero (ma vogliamo essere fiduciosi che non sia così), se davvero questa coscienza ambientalista contemporanea ha “corpo”, e non è un gioco e il plagio di una generazione annoiata e cresciuta con valori opposti, la corsa modaiola verso rispetto della natura (che avrebbe dovuto essere pleonastica) sta producendo una lunghissima serie di “eventi” (non è questa la parola adatta?) e null’altro.
Cambiamo leggermente argomento. Nel 1995, l’Ecole régionale des beaux-arts di Valence pubblica un opuscolo intitolato Contribution à l’étude du Jardin Planétaire, a firma di Michel Blazy e Gilles Clément. Segue, nel 1997, per mano di Clément, una favola intitolata Thomas et le Voyageur. Dopo un paio di anni, nel settembre del 1999, presso la Grande Halle de La Villette, viene fornita consistenza all’idea secondo cui il nostro pianeta altro non è che un grande appezzamento di terra soggetto a continue “commistioni” (e abitato da parassiti, aggiungerei). Ecco, in sintesi, la genesi del decantato “Giardino Planetario”, oggi in bocca a chiunque.
La casa editrice romana DeriveApprodi, nel 2015, ha deciso di raccogliere alcuni articoli dell’ecologista umanista (e non totalitarista) Gilles Clément, inserendoli nel bellissimo testo dal titolo Piccola pedagogia dell’erba, a cura di Luisa Jones, nel quale vengono esposti i retroscena e le riflessioni sui più importanti temi del famoso “giardiniere” francese, dal terzo paesaggio agli esseri vagabondi. In merito al “Giardino Planetario”, alle pagine 35 e 36 dell’edizione italiana sopra citata, Clément scrive: «Giardino Planetario non è concepito sé come un’esposizione. È un progetto di gestione, ovvero di “politica” con al centro della riflessione l’ecologia e della preoccupazione il vivente, dove l’uomo, non isolato dalla natura, appartiene al sistema del vivente», ritenendo la distinzione uomo/natura una distinzione scenografica.
Ritorniamo nell’argomento.
A Palermo, nell’anno della sua incoronazione a capitale della cultura, fa tappa la dodicesima edizione della biennale Manifesta. L’immagine in locandina è un dipinto di Francesco Lojacono, i cui elementi naturali rappresentati sono etichettati per provenienza. E il tema di quest’anno è, giustu giustu (come direbbe il mio amico fruttivendolo di Ballarò), il “Giardino Planetario“, ma nella veste di “esposizione”, con al centro della riflessione le opere d’arte.
Per le recensioni dell’edizione palermitana di Manifesta che in questa rivista seguiranno, il metodo adottato sarà sia valutare quanto un’opera d’arte possa definirsi vivente (nel senso del “Giardino Planetario”, insomma) sia una divertente esegesi fondamentalista dei testi di Clément in rapporto all’esposizione. Un sottoparagrafo, invece, desidererà chiarire l’eccessiva attenzione mediatica sulla bellezza della Sicilia da parte delle più grosse testate nazionali, sponsorizzate (ovviamente) da un unica cordata di “padroni”, mitizzandola come fosse una bottiglia di Coca-Cola, e innalzandola a feticcio per finanziari romanticoni.